Prevendita "Outremer " By le peruggine e Leri

Qui i primi capitoli disponibili

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.     +1   -1
     
    .
    Avatar

    » der ♥ Himmel «

    Group
    Chosen
    Posts
    10,977
    Reputation
    +6
    Location
    always behind your shoulders

    Status
    Anonymous
    Eccomi di nuovo qua, col permesso delle autrici e delle somma Hell per aprire questo topic *^*
    Molti di voi sicuramente seguono il blog delle Peru e quindi sapranno di cosa parlo, ma io son qui per rinfrescarvi la memoria. Parliamo del loro nuovo libro a tema storico: Outremer.
    Trovate qui in anteprima i primi capitoli, ho voluto aspettare a pubblicarli fino a quando le prevendite non fossero state disponibili; potete ordinare il vostro volume qua *ClickClick*

    Outremer
    By Le Peruggine e Leri


    ipAF99vl

    Trama:
    «Sono sincero con me stesso, conosco ogni oscuro anfratto del mio essere, ogni turpe desiderio che striscia sotto la mia pelle, ogni laido pensiero che infanga i miei voti.»

    Learco De Guineldi è un giovane laico costretto dal padre ad entrare al servizio dei Templari come scrivano. Valente Tancredi è un monaco guerriero dal volto sfigurato che crede ciecamente nella missione del suo Ordine. Due personalità diverse e contrapposte che si incontrano durante un viaggio, dagli ombrosi boschi dell'Italia medievale fino alle mura di Tiro, nelle calde terre di Outremer, dando vita ad un amore tormentato sullo sfondo di una guerra che segnerà la storia dell'umanità.

    Specifiche del volume:
    Pagine 609
    Cover morbida
    Illustrazioni interne in b/n
    Il costo del volume è 23 euro.




    CITAZIONE
    <b>CAPITOLO 1

    Firenze, 09 giugno 1187

    Sbuffando e borbottando tra sé e sé, tenendo il capo chino e le mani giunte sotto la tunica nera in modo che i monaci che lo incontravano pensassero che fosse in un certo qual modo raccolto in preghiera, Learco Irio de’ Guineldi stava in realtà cercando di sfogarsi senza darlo a vedere. Provava un senso di frustrazione che in quel luogo non poteva essere palesato, a rischio di un rimbrotto e conseguente punizione.
    Affrettò il più possibile il passo per raggiungere il cancello alla fine del chiostro e poter infine uscire da quella che da un anno a quella parte era diventata la sua prigione. Tutte le volte che si recava nella magione dove era di ruolo si sentiva soffocare, tanto era cupa l’atmosfera e pesante l’aria che vi si respirava. Tuttavia aveva la fortuna di potersene andare con una certa libertà e in quel momento ne aveva veramente bisogno, pur sapendo che non poteva farlo. Fratello Moraldo, il sergente che coordinava il lavoro dei fratelli di Mestiere e degli uomini del Tempio, lo aveva chiamato in privato per commissionargli alcune carte da vergare e per comunicargli la decisione del Consiglio che aveva scelto lui per seguire la prossima spedizione diplomatica dei cavalieri templari di stanza nel contado fiorentino.
    Learco aveva dovuto sforzarsi non poco per reprimere l’istintivo moto di stizza che avrebbe tradito il suo disappunto. Premendo le labbra piene, aveva ridotto gli occhi neri a due fessure osservando l’anziano Moraldo in silenzio, mentre questi leggeva ad alta voce, con il consueto timbro sicuro e austero, avvolto dalla lugubre tunica nera indossata anche da Learco, le carte dove erano scritti tutti i compiti che sarebbero spettati al giovane una volta giunto a destinazione.
    Destinazione Perugia.
    Nel maggio 1187 un contingente templare aveva subito una dura sconfitta ad opera delle forze egiziane nei pressi delle fonti di Cresson. Il Gran Maestro dell’ordine degli Ospitalieri Ruggero des Moulins aveva perso la vita nello scontro, mentre il Gran Maestro del Tempio Gerardo di Ritfort era riuscito a fuggire, seppur con difficoltà.
    Scopo della delegazione crociata di Firenze era ottenere un resoconto dettagliato dai reduci che erano appena tornati nelle terre italiche feriti ma in grado di fare rapporto. A Perugia avrebbero trovato almeno uno dei tre sopravvissuti ed entro la fine del mese proprio là si sarebbe tenuta una riunione dove il cavaliere avrebbe raccontato l’accaduto.
    Learco doveva seguire i delegati fiorentini prevalentemente in qualità di scrivano: registrare le informazioni ottenute per poi aggiornare l’archivio della magione cui faceva capo e occuparsi delle questioni burocratiche e logistiche. Non a caso adesso avrebbe dovuto dirigersi presso le stalle per accordarsi sui cavalli e sui carri che sarebbero serviti per la spedizione.
    Vederlo però in lontananza acuì il suo disagio.
    Sottoposto ai Templari non per proprio volere, Learco non aveva interesse personale ad andare a Perugia, ma di questo certo non poteva farne parola con nessuno, non sarebbe stato certo degno di un uomo del Tempio devoto alla causa! Tanto meno avrebbe potuto spiegare i motivi della sua ritrosia. Cosa avrebbe detto del resto, che per quanto lo riguardava se i Templari non sapevano tenere testa agli egiziani avrebbero fatto meglio a starsene a casa? Con il rischio di prendersi una sanzione esemplare?
    Oppure avrebbe dovuto rivelare ciò che lo torturava di più in quel momento? Motivazione ancor più personale, nessuno avrebbe apprezzato sentirgli confessare che era tremendamente offeso per il comportamento che il suo bell’amante aveva tenuto nei suoi confronti la sera prima e che per questo se ne infischiava della Terra Santa. I Templari, come tutti gli ordini monastici, erano tenuti alla castità, se fosse trapelato che il biondo e aitante Bertrand de Vannes se la faceva con un maschio e per di più laico avrebbe scatenato delle reazioni a catena che Learco non voleva neanche immaginare. Anche se si ritrovò a sghignazzare al pensiero licenzioso di assistere all’espressione inorridita del loro precettore.
    Scosse i cortissimi riccioli castano chiari e cercò di concentrarsi sui suoi impegni, ma inutile. A quanto pareva anche Bertrand lo aveva notato e ora, con il suo incedere regale e la tunica bianca che gli sventolava attorno al corpo statuario, gli si avvicinava a grandi passi.
    Learco non aveva nessuna intenzione di parlare con lui, soprattutto non in un luogo pubblico come il centralissimo cortile della magione. Avrebbe rischiato di sputargli contro tutto il veleno che covava dalla sera precedente. Strinse comunque i denti e rallentò il passo, alzando lo sguardo sul cavaliere e puntandoglielo diritto in faccia.
    «Ben trovato magister.» lo salutò il templare con il suo tipico sorriso di circostanza e utilizzando il nomignolo che gli avevano affibbiato per prenderlo in giro. Learco era veramente un magister, ma i monaci guerrieri con cui aveva quotidianamente a che fare lo usavano sovente per prendersi gioco di lui. Tuttavia era consapevole di essere ben superiore a tutti quei bifolchi che ragionavano soltanto con i muscoli! Se non altro Bertrand, almeno stando a quanto assicurato da lui, lo faceva esclusivamente per non mostrare la sua inclinazione; come se per Learco cambiasse qualcosa del resto: gli altri ragionavano con i muscoli, il bretone con quello che aveva tra le gambe!
    «Fratello Bertrand…» ricambiò comunque il giovane con un cenno del capo e fermandosi definitivamente di fronte a lui.
    «Ho avuto notizia che anche tu farai parte della delegazione in partenza per Perugia.» gli disse semplicemente il cavaliere, passandosi una mano tra i sottili capelli dorati.
    I suoi occhi chiari come l’acqua di fonte lo osservavano attenti mentre Learco cercava di valutare quello che in realtà Bertrand voleva dirgli.
    «È così in effetti. Ne deduco che anche a te spetta il compito di interrogare il fratello superstite.» replicò l’altro con il tono più neutro che poté.
    Un viaggio di una settimana in compagnia dei templari era già di per sé una punizione sufficiente per lui. Doverlo fare con la presenza di Bertrand ma senza poterlo avvicinare sarebbe diventato persino un supplizio!
    Si passò una mano sulla nuca scoperta.
    «Sì, saremo venti in tutto, te lo hanno già comunicato? Sei cavalieri, tu, fratello Marsilio e dodici inservienti.»
    «Sono stato avvertito. Mi sto dirigendo per l’appunto verso le stalle per occuparmi dei cavalli e dei carri, non preoccuparti.» rispose Learco, forse un po’ troppo risentito.
    «Non mi preoccupo affatto, so che organizzerai tutto nel migliore dei modi.» ritorse il francese a bassa voce. «Ti aspetto dopo la compieta…»
    La compieta?…non è ancora il vespro…
    «Dovrei venire? Perché?» gli chiese a bruciapelo, pentendosi poi della propria irruenza.
    Bertrand abbassò gli occhi, sorridendo amaramente, poi tornò a guardarlo sornione. «Non vuoi perdonarmi?»
    Lo sguardo di Learco si indurì, ma vedendo che fratello Marsilio si stava avvicinando decise di tagliare corto. «Bene Bertrand, mi occuperò io dei cavalli come d’accordo» disse a voce più alta. «Vedo qui fratello Marsilio con cui devo definire i compiti, ti terrò aggiornato.» gli disse inchinandosi leggermente.
    «Irio…»
    Lo odiava quando lo chiamava con il suo secondo nome… e lo odiava ancor più quando lo tentava a quel modo!
    «Stasera dopo le laudi allora.» gli ripeté.
    Learco non si degnò neppure di voltarsi a rispondergli, andò impettito verso Marsilio, il fratello di Mestiere di vari anni più anziano di lui con il quale avrebbe dovuto organizzare il viaggio.
    Lo odiava. E soprattutto odiava se stesso perché non riusciva a dire di no a quella chioma dorata.
    CAPITOLO 2

    Perugia, 14 giugno 1187
    Abbazia di San Giustino d’Arna


    Erano passati undici anni dall’ultima volta che aveva messo piede in quella chiesa. La sua vita aveva subito enormi cambiamenti da allora, nonostante ciò il tempo sembrava essersi fermato all’interno di quelle vecchie pietre.

    Ave, Maria, gratia plena,
    Dominus Tecum,

    Il suono di molteplici voci sussurranti echeggiava tra le capriate di legno e si diffondeva come un mormorio cupo e ritmato scivolando sulle pietre compatte, nell’ombrosa frescura delle navate.
    Fiochi barlumi penetravano dalle strette aperture poste nella parte alta delle mura esterne e un raggio brillante scendeva dalla finestrella che si apriva alle spalle del presbiterio, inargentando l’altare ornato di bei broccati francesi e facendo rifulgere il calice d’oro e il reliquiario gemmato.

    Benedicta Tu in mulieribus
    et benedictus fructus ventris Tui, Jesus.

    Si respirava tenue l’odore dell’incenso, rilasciato in spirali grigio azzurre dai turiboli appesi agli angoli delle colonne, con quel sentore mistico che catturava i sensi degli uomini raccolti in preghiera, spronandoli ad immergersi nella litania anche con il corpo.

    Sancta Maria, Mater Dei,
    ora pro nobis peccatoribus,
    nunc et in hora mortis nostrae.

    Valente chinò la testa e chiuse gli occhi, per qualche istante riuscì persino a ignorare il dolore pulsante che lo stava tormentando da quando si era affiancato ai fratelli cavalieri nella messa della sesta. Dal suo ritorno alla magione di San Giustino d’Arna avvenuto circa dieci giorni prima, gli era stato concesso di alzarsi e partecipare alle funzioni solo in quella circostanza.

    AMEN

    Alzò il volto quando la preghiera alla vergine fu conclusa e, muovendosi con cautela, si spostò fino a raggiungere una delle colonne della navata, appoggiandosi poi ad essa con la schiena. In quel momento avvertiva il muscolo della gamba destra tremare fastidiosamente, mentre la pelle tirava sopra la ferita. Durante il tragitto dalle Puglie al territorio perugino il taglio che si era procurato a Cresson si era riaperto, le ore di cavalcata avevano finito per farlo strappare e sanguinare copiosamente nonostante l’infermiere della Precettoria di Barletta lo avesse adeguatamente ricucito e fasciato strettamente in vista del lungo viaggio.
    Tentò di concentrarsi di nuovo su ciò che stava dicendo il cappellano, di immergersi nella sacralità del luogo, di ignorare le lamentele del suo corpo e costringere la mente a seguire ogni passaggio delle parole latine che risuonavano dall’altare, ma gli risultò più difficile di quanto avesse sperato. Rimanere in piedi era impresa ardua ogni minuto di più. Stava meditando se mettersi in ginocchio, quando una mano si appoggiò alla sua spalla. Si volse incontrando il sorriso benevolo di fratello Guglielmo. Aveva avvertito l’arrivo dell’uomo già da prima; da quando aveva perso l’occhio destro alla battaglia di Marj Ayun i restanti sensi si erano gradualmente affinati.
    L’anziano cavaliere gli si sistemò al fianco e gli fece passare una mano attorno al braccio, aiutandolo a sostenersi. Con un certo sollievo Valente alleggerì la gamba ferita dal peso del proprio corpo e tornò a concentrarsi nelle preghiere.
    La messa si concluse con il Paternoster e in silenzio i cavalieri attraversarono il grande portale ad arco acuto diretti al refettorio.
    Guglielmo continuò a sorreggerlo mentre si avviavano all’esterno e quando emersero alla forte luce solare di mezzogiorno Valente si schermò l’occhio sano con la mano e inspirò a fondo l’aria tiepida, colma dell’odore del pane appena sfornato che si levava dalle cucine poco distanti.
    «Non avrebbero dovuto darti il permesso di alzarti dal letto.» esclamò l’uomo al suo fianco.
    «Sto bene, fratello Guglielmo, ma grazie ugualmente per l’aiuto.» Valente sorrise. Uno dei rari momenti in cui concedeva a se stesso di godere della gentilezza altrui. Del resto Guglielmo lo aveva visto crescere, proprio in quella magione, immersa negli odorosi boschi umbri, nel silenzio del ritiro, nel dolore della solitudine e nella paura di ciò che lui stesso era stato, quando era giunto ancora fanciullo accompagnato da suo zio Enrico. «Inoltre domani arriveranno le delegazioni delle principali commanderie del centro della penisola, non posso certo riceverle disteso in braghe e camicia.»
    «Hai chiesto troppo al tuo fisico, Valente, questo non è propriamente nelle grazie di Dio, dovresti saperlo. La nostra Regola non impone sacrifici simili.»
    «Lo so, fratello, ma al momento non credo che la mia scarsa capacità guerresca sia un problema. Sono ben altre le rogne che il Tempio dovrà affrontare. Anche se è vero che non abbiamo molto tempo, i saraceni si fanno ogni giorno più arditi, mentre la situazione dei nobili cristiani in Terra Santa è in continua evoluzione.»
    «Evoluzione?» chiese il vecchio frate, confuso da quel termine che in un simile frangente suonava effettivamente bizzarro.
    Il cavaliere più giovane strinse le labbra con amarezza ripensando alle torbide lotte di potere che indebolivano i territori di Outremer, ma decise che non valeva la pena iniziare un discorso in merito subito prima di mangiare, dove il silenzio era un obbligo per tutti i frati, per cui non specificò. Diede un colpetto affettuoso alla mano dell’altro che ancora lo sorreggeva e si separò da lui. «Grazie per l’aiuto Guglielmo, oggi pomeriggio chiederò il permesso di assistere alla nona e ai vespri da seduto.»
    «Abbi cura di te, figliolo.» Il viso barbuto di Gugliemo s’aggrinzì di più quando tornò di nuovo a sorridergli.
    «Farò quel che a Dio piacerà.» rispose semplicemente.
    I due cavalieri entrarono nella grande sala, illuminata dalle ampie finestre dove le cerate erano state sollevate per permettere al luce diurna di filtrare, nonostante la presenza delle fronde compatte degli alberi e del porticato del chiostro. C’era odore di stufato di cavolo. I monaci guerrieri presero ordinatamente posto sulle lunghe panche, recitarono un paternoster per ringraziare il Signore del pasto che aveva loro concesso e attesero che i servitori iniziassero a spartire il cibo.
    Un giovane chierico dai capelli scuri, in piedi in fondo alla sala, si schiariva la voce per iniziare a leggere un brano della bibbia.
    La zuppa venne servita in abbondanti porzioni sui grandi piatti di rame, Valente raccolse il pane e lo intinse nella pietanza fumante. Guglielmo accanto a lui lo imitò, utilizzando lo stesso piatto, cosa piuttosto comune alle mense dell’Ordine, dove l’umiltà era ancora valore da esibire.
    Fu servito anche del bollito di manzo e sulle coppe fu mescolato il vino. Il giovane Templare scosse il capo quando il servitore si avvicinò per versarne anche a lui e si limitò a bere l’acqua pura, come era sua abitudine.
    Nella sala si udiva solo la voce un poco cantilenante del chierico e il ronzio delle mosche.
    Il sapore dello stufato e del bollito di carne era ben diverso da quello delle pietanze cucinate in Terrasanta, più corposo forse, ma meno stuzzicante. In Outremer odori e colori erano più vivaci, i sapori più speziati, la varietà del cibo spesso maggiore e migliore in qualità.
    Al castello di La Fève, dove aveva soggiornato gli ultimi cinque anni della sua vita, il refettorio era posto in un’ampia sala al primo piano, con le pareti in pietra gialla e ampie finestre alte e sottili che lasciavano entrare la luce intensa e bianchissima del giorno e il vento caldo delle ampie vallate della Signoria di Nablus. Dovette ammettere a se stesso che quell’atmosfera gli mancava: gli mancavano i lunghi corridoi che si snodavano sulle merlature, dove il vento strisciava intonando melodie sibilanti, e le camerate che odoravano di fiori di arancio, essenze pregiate che i soldati del Tempio di stanza in Outremer avevano preso l’abitudine di utilizzare nei loro bagni, per disinfettare la pelle. Gli mancava persino il suono cupo e rimbrottante della campana di allarme, che raggiungeva ogni angolo del castello quando all’orizzonte si profilavano le sagome di carovane di pellegrini o la polvere di qualche scorreria saracena.
    Nonostante le sue origini affondassero in terra umbra, ormai seppellite sotto la sua rinforzata identità di guerriero di Dio; nonostante fosse stato abbastanza felice di rivedere il vecchio Guglielmo, da sempre gentile e bendisposto nei suoi confronti, e nonostante la Regola imponesse un legame spirituale ovunque svettasse il Beauceant, Valente si sentiva oppresso in quella magione che lo aveva ospitato all’acerba età di tredici anni, terrorizzato e con la sola compagnia di monaci taciturni, severi e la costante presenza di suo zio, il quale non aveva mancato istante per ricordargli quanto miserabile e insignificante fosse la sua esistenza.
    Scacciò quei pensieri tetri con lo stesso fastidio con cui allontanava le mosche dal piatto e cercò di concentrarsi nuovamente sulla voce del giovane chierico che recitava uno dei passi delle sacre scritture. Lunghi anni di disciplina imposta e autoimposta servirono allo scopo, in poco tempo ogni brutta sensazione scivolò via e il giovane terminò di mangiare riflettendo esclusivamente su ciò che gli era stato incaricato di riferire ai principali precettori dei territori italici.
    Quando uscirono dal refettorio Guglielmo si offrì di accompagnarlo ai dormitori, ma mentre camminavano sotto le arcate del portico esterno una voce nota, dal timbro marcato di chi è abituato al comando, li raggiunse.
    Valente si girò e si inchinò lievemente in segno di omaggio mentre Ascanio Morello si avvicinava con il suo passo rapido.
    Il precettore della magione di San Giustino d’Arna ricambiò sbrigativamente il gesto. «Ti vedo pallido, fratello Valente. Domani, tra la tarda mattinata e il pomeriggio dovrebbero giungere le delegazioni di Firenze, Ancona e Macerata, mi auguro che tu sia in grado di riferire con precisione di dettagli quello di cui abbiamo già discusso al tuo arrivo.»
    «Senza alcun dubbio, signore.» Aveva già raccontato la disfatta di Cresson e rivolto l’appello che il Gran Maestro in persona gli aveva mandato a diffondere alla precettoria di Barletta, di Roma e poi a quella di Perugia. All’idea di riportare di nuovo alla luce il massacro di cui era stato testimone e, suo malgrado, infelice sopravvissuto gli dava la nausea.
    «Bene.» Ascanio annuì gravemente. «Fratello Guglielmo accompagna fratello Valente al dormitorio, se non dovesse sentirsi bene riconfermo la dispensa dal partecipare alle funzioni.»
    «Non è necessario!» esclamò Valente. «Chiedo solo il permesso di poter assistere seduto.»
    «Permesso accordato.» Ascanio si allontanò proseguendo impettito per la sua strada, con il bianco mantello svolazzante.

    Aveva atteso il termine della funzione della terza per recarsi al pozzo a prendere l’acqua. Intendeva farsi un bagno e lavarsi i capelli prima del successivo ufficio sacro, erano ormai troppi giorni che non si tergeva e l’odore del suo corpo iniziava ad assumere un sentore stantio e malato che non gli piaceva affatto. Gli era stato assegnato un nuovo scudiero e avrebbe potuto chiedere a lui di aiutarlo nelle abluzioni, ma aveva preferito spedirlo a lucidare la cotta di maglia e ad assicurarsi che il suo cavallo non avesse bisogno di essere spazzolato o che i finimenti per la cavalcatura fossero ben oliati. Così quando si ritrovò nel retro del convento da solo iniziò a scontrarsi con le prime difficoltà già nel rimuovere gli abiti. Fu costretto a sedersi su un basso muretto che circondava l’orto per togliersi i pantaloni, la gamba ferita non riusciva ancora a reggere interamente il suo peso.
    Come prima cosa si bagnò il capo e si insaponò i capelli castano scuro che ricadevano sulla fronte e sul collo in onde molto morbide, poi risciacquandoli ne approfittò per irrorare il busto e le braccia e con ciò che restava dell’acqua fredda del primo secchio si lavò il resto del corpo, avendo cura di non bagnare le fasciature intorno alla coscia. Mentre passava le mani sopra i muscoli scolpiti dal duro allenamento e dai lunghi anni trascorsi a guerreggiare con gli infedeli, iniziò quasi meccanicamente a contare tutte le cicatrici che aveva collezionato. Tante, piccole o molto lunghe, alcune sottili altre di forma tonda e irregolare, tutte spiccavano per il loro curioso colore latteo sopra la pelle fortemente indorata dal sole infuocato delle terre palestinesi.
    Aveva portato con sé alcune piccole ampolle di essenza di arancio dai possedimenti di La Fève e quando terminò di tergersi dal sapone cominciò a frizionare con essa la chioma umida e l’epidermide, rendendo a quest’ultima un aspetto lucido e bizzarramente liscio, visto che da qualche anno a questa parte la peluria delle gambe e delle braccia aveva finito per non crescere più, costantemente levigata dallo sfregamento delle spesse stoffe sotto l’armatura.
    Aveva terminato di mondarsi, ma era così stanco e dolorante che restò per qualche istante seduto sul muretto, completamente nudo a godersi il tepore del mattino. Nonostante il suo rilassamento si accorse in fretta dei passi rapidi di qualcuno che si avvicinava sul terreno battuto di uno dei vialetti che conducevano agli orti, ma non fece in tempo ad alzarsi e rivestirsi e, a dire il vero, nemmeno si sforzò di farlo. Rimase immobile quando il giovane comparve proprio davanti a lui con aria vagamente trafelata. Era piuttosto alto, calzava una tunica nera con la croce rossa cucita sopra il cuore, le maniche corte rimboccate sulle spalle e una sottile camiciola che alla luce intensa del mattino lasciava intravedere le linee snelle delle braccia, come snella era tutta la sua figura. I capelli chiari, tagliati molto corti sulla nuca, si arricciavano fittamente e sotto il riflesso del sole brillavano come piccoli trucioli ramati. Aveva tratti marcati, naso leggermente schiacciato, mascella volitiva e labbra pronunciate, in quel momento quasi imbronciate.
    Mentre gli si fermava di fronte lo squadrò da capo a piedi, cosa che irritò Valente e lo indusse ad accigliarsi ancora di più. Non amava farsi vedere nudo da altri uomini e quello era il principale motivo per cui si lavava in orari insoliti o, se possibile, in luoghi solitari. Se non altro si trovava frontale rispetto al nuovo arrivato e questi non poteva così vedere i segni sulle sue spalle, prove evidenti dei suoi peccati.
    «Stai cercando qualcuno, fratello?» domandò seccamente.
    Sul viso dell’altro si alternarono almeno tre tipi di espressione, inizialmente sembrava quasi arrabbiato, poi quando i loro sguardi si erano incontrati una nota di stupore aveva disteso i lineamenti ed ora appariva vagamente confuso. «No, cioè, non esattamente. Sono andato a consegnare alcuni plichi all’ufficio del precettore ed ora stavo tornando alla Foresteria.»
    Dallo spiccato accento della sua parlata e da alcune parole che Valente conosceva soltanto perché aveva avuto molti commilitoni provenienti dalla stessa zona dello sconosciuto comprese che si trattava di un toscano. Cosa che gli fece pensare che la delegazione di Firenze era infine giunta alla magione.
    «Capisco.» La sua espressione si ingentilì un poco. «In effetti non è difficile sbagliare percorso per chi non è del posto, visto che dagli uffici c’è un’unica strada che poi si suddivide in un bivio. Probabilmente hai imboccato la via di sinistra che ti ha condotto verso il retro del convento, torna indietro e prendi quella di destra. La foresteria è una piccola struttura di mattoni in tufo, si trova vicino alle stalle.»
    «Grazie infinite.»
    Valente gli rivolse un cenno col capo, mentre questi dopo avergli dato un’ultima fuggevole occhiata si voltava e spariva dietro le mura del cortile interno.
    Il cavaliere sospirò e alla fine si decise a rimettersi in piedi e rivestirsi, forse c’erano delle comunicazioni per lui, anche se dubitava che si sarebbero riuniti in sede di consiglio prima della nona.

    Quando raggiunse il refettorio e sedette al suo posto notò che accanto al precettore vi erano dei cavalieri sconosciuti, una decina, alcuni di essi indossavano ancora abiti da viaggio, con gli orli inferiori impolverati. La sua attenzione fu catturata da un fratello con capelli di un delicato biondo paglierino e un viso così bello che Valente se lo era immaginato solo sugli angeli. Anche a quella distanza e nella penombra spiccavano i luminosi occhi celesti orlati di ciglia dorate. Avvertì una fastidiosa fitta all’altezza dello stomaco e abbassò immediatamente il proprio sguardo sul piatto di rame ancora vuoto.
    I frati combattenti ricevettero in silenzio la benedizione del cappellano e infine sedettero per mangiare. Valente rimase concentrato sulle sue stesse mani per tutto il resto del pasto.
    Poco dopo che furono usciti, diretti alla cappella per ringraziare Dio della benevolenza che concedeva all’Ordine, il precettore in persona gli si affiancò e come lui stesso aveva previsto gli comunicò che le delegazioni di Firenze e Macerata avevano raggiunto la magione e probabilmente i fratelli di Ancona erano in arrivo, dopo la nona si sarebbero riuniti per il Consiglio.
    Passò il tempo che gli restava pregando forsennatamente affinché il Signore scacciasse dalla sua mente la fulgida immagine di quell’uomo e riconducesse nel suo animo la calma interiore di cui aveva bisogno per ripetere per l’ennesima volta tutti gli accadimenti dei mesi precedenti.
    Quando venne il momento s’incamminò verso il luogo in cui era atteso ed entrò zoppicando nell’ampia stanza della struttura conventuale destinata ai Consigli, dove diverse file di panche erano disposte di fronte ad una decina di sedie di legno scolpito. I presenti nella sala erano quasi tutti cavalieri, nelle loro divise bianche, ma vi si trovava anche un sergente in tunica nera e tre fratelli di mestiere, due dei quali sorreggevano un piccolo scrittoio ed erano muniti di lunghi stili e tavolette di cera. Riconobbe in uno di loro il giovane che lo aveva scovato a farsi il bagno vicino agli orti conventuali e, poco lontano, seduto con le gambe accavallate vi era il biondo angelo dagli occhi trasparenti.
    Ascanio smise di chiacchierare fittamente con un cavaliere barbuto che gli sedeva a fianco e gli si accostò. «Fratelli carissimi.» disse alzando il tono di voce e rivolgendosi a tutti gli astanti. «Vi presento fratello Valente Tancredi. È arrivato da Outremer un mese fa e ci ha raggiunto qui a Perugia dieci giorni or sono. Lui è uno dei due valorosi fratelli che hanno condotto in salvo il Gran Maestro Gerardo, sarà lui a chiarire tutti i nostri dubbi in merito all’accaduto.»
    Gli uomini nella sala si alzarono in piedi per dargli il benvenuto, Valente che si trovava profondamente a disagio ad essere così al centro dell’attenzione fece buon viso a cattivo gioco e si inchinò leggermente prima di prendere posto vicino al precettore della magione.
    «Prego fratello Valente, inizia pure il tuo resoconto, così come facesti al tuo arrivo qui.» lo incoraggiò Ascanio.
    Valente si umettò le labbra e iniziò. «Mi trovavo di stanza al castello di La Fève, a circa cinque ore a cavallo da Gerusalemme. Il 29 aprile, avevamo da poco terminato i vespri, giunse un messaggero dal castello del signore di Ibelin, dove si trovava ospite il nostro Gran Maestro. La richiesta urgente era quella di approntare un gruppo armato per una sortita contro un drappello di infedeli che sembrava avesse mercanteggiato una tregua con il Conte di Tripoli, Raimondo.» A quell’affermazione si levò un cupo mormorio che si spense quasi subito, permettendogli di continuare. «Il fortilizio di La Fève è uno di quelli maggiormente forniti di uomini e approvvigionamenti, trovandosi in linea diretta tra i territori di Antiochia e Gerusalemme. Così predisponemmo un gruppo di trentacinque cavalieri e tredici sergenti. Il piccolo drappello del Gran Maestro con il gruppo di Ospitalieri ci raggiunse poche ore dopo e insieme ci dirigemmo al galoppo verso Nazareth, incontrando, poco prima di separarci dalle sponde dell’Oronte, i fratelli partiti dalla fortezza di Caco. Loro erano in venti, più quattro sergenti. Non era ancora l’alba quando giungemmo vicino a Nazareth, alle fonti di Cresson. Noi Templari eravamo in tutto novanta, settanta cavalieri e venti sergenti. Gli Ospitalieri contavano una forza ridotta di circa venti cavalieri, il resto erano combattenti del Regno di stanza a Nazareth.» Si soffermò qualche secondo, davanti ai suoi occhi si ripresentò l’immagine nitida del sole che affiorava sui crinali pallidi dell’orizzonte, infiammando le punte arrotondate di quel paesaggio dai morbidi toni di verde. Ad un tiro di freccia di distanza le acque smeraldine di un piccolo lago, chiamato sorgente di Cresson, gorgogliavano blandamente. Il paesaggio era soffuso, dopo l’alba, il rosa e l’azzurro dominavano la vallata. «In tutto eravamo centoquaranta cavalieri cristiani.» disse, contraendo lievemente la mascella, sentendo il muscolo guizzare e la lunga cicatrice che gli attraversava lo zigomo e la guancia destra tirargli la pelle. «E poco oltre una stretta striscia di prato, ad ovest rispetto a dove eravamo in formazione, comparve il contingente nemico. La stima piuttosto precisa che ne abbiamo avuto in seguito a dei dispacci inviati da Baliano di Ibelin, che in quel momento si trovava al suo castello di Nablus, era di circa settemila guerrieri saraceni, sotto il diretto controllo del sultano Salāh al-Dīn.»
    Il gruppo di cavalieri perugini, presente in piccola parte come rappresentanza della magione non disse nulla, essendo già a conoscenza di fatti e numeri, ma i restanti uomini non riuscirono a trattenersi. Lo scompenso numerico tra i due contingenti vedeva uno scontro di cinquanta ad uno sfavorevole ai cristiani. Praticamente un suicidio.
    Borbottii, esclamazioni di sgomento e persino gemiti si confusero tra loro, anche i segretari interruppero il loro lavoro di trascrizione per alzare le teste dalle tavole di cera, sbigottiti. Valente attese in silenzio che nel gruppo tornasse la calma, mentre nella sua mente l’immagine permaneva come un dipinto ricchissimo di dettagli, vedeva ancora gli elmi conici dei nemici, le loro scimitarre ricurve e le dorature degli archi che scintillavano di milioni di barbagli, minacciosi come occhi e zanne di fiere feroci. Rivestivano l’intera vallata, sopra cavalli morelli scalpitanti, sospesi quei pochi secondi in attesa dell’inizio dello scontro.
    «Il Gran Maestro dell’Ospedale, visto l’enorme svantaggio esortò il nostro Gran Maestro alla ritirata, concorde con lui si trovò il Maresciallo del Tempio, Giacomo di Mailly. Il Gran Maestro Gerardo si adirò molto in quel caso. Nessun cavaliere di Cristo rifiuta lo scontro con gli infedeli, gridò, lo sentimmo tutti quanti.»
    «Uno ne caccia un migliaio, due ne mettono in fuga diecimila! Così diceva San Bernardo di Chiaravalle, che Iddio lo abbia in gloria.» esclamò uno dei Templari fiorentini, un uomo barbuto e con un grosso naso butterato sotto le folte sopracciglia, sbattendo un pugno sul bracciolo della sedia su cui sedeva.
    «Così non fu, fratello.» Valente chinò il capo con amarezza. «Dal principio i saraceni sembrarono accennare a ritirarsi, nonostante la palese supremazia. Così il Gran Maestro ordinò la carica. Avevamo cavalcato tutta la notte ed eravamo stanchi, nonostante questo reagimmo immediatamente, partendo con furia contro il nemico. Una volta vicini alla loro retrovia le truppe appiedate si aprirono a ventaglio e ci circondarono, mentre la loro cavalleria si riversava al centro in forma di cuneo. Un mare nero e argento ci racchiuse in una morsa da cui non si poteva sfuggire. Il vessillo dell’Ospedale fu letteralmente sommerso in pochi istanti. Non posso fornirvi tempistiche precise, mi spiace, so soltanto che la prima volta che mi azzardai a sollevare lo sguardo vidi ancora in piedi il Beauceant, vacillante ma eretto contro il cielo. Mi sentii rincuorato e continuai a combattere disperatamente, fino a quando anche il nostro vessillo scomparve, allora cercai di muovermi, spostarmi sopra i cadaveri dei fratelli. Il terreno era praticamente ricoperto di mantelli bianchi chiazzati di sangue, ma vi posso giurare che molti erano anche i nemici. Corsi, calpestando corpi immobili, inciampai più volte e infine riuscii a raggiungere il gonfaloniere. Era disteso a terra, seppellito sotto il suo stesso cavallo agonizzante, non troppo distante si trovava anche il Gran Maestro Gerardo.» Ricordava chiaramente che l’aria puzzava indicibilmente di sangue ed escrementi, che le grida che si levavano celebravano in arabo la vittoria appena ottenuta. Rammentava persino quanta difficoltà aveva trovato nello spostarsi, in quel momento non si era reso conto che la sua gamba aveva uno squarcio profondo che gli aveva completamente inzaccherato la clamide, non avvertiva il dolore, ma solo l’urgenza di proteggere lo stendardo. Era quasi accecato dal sole che sorgeva sempre più alto quando qualcuno lo aveva abbracciato da dietro, se lo era scosso di dosso furibondo, temendo l’assalto di qualche alabardiere nemico e invece si era ritrovato di fronte un fratello ansante, anch’esso sanguinante in più punti, che gli aveva indicato a poca distanza un piccolo gruppo di tre cavalli privi del loro cavaliere. La sua propria cavalcatura era stata atterrata da una sciabolata alla gola verso l’inizio dello scontro e Valente aveva provato quasi dolore fisico a quella morte. I Templari erano profondamente legati ai loro destrieri. Inizialmente aveva guardato il compagno superstite come se fosse impazzito, voleva davvero fuggire di fronte al nemico, mentre tutti i loro fratelli erano stati trucidati? Ma poco dopo si era reso conto che l’altro stava sorreggendo niente di meno che lo stesso Gerardo di Ritfort. Lo aveva aiutato allora a trasportarlo ai cavalli, il Gran Maestro era cosciente, gli occhi lucidi di lacrime, sangue che gli rigava il viso e le gambe che sembravano non rispondere ai suoi ordini. I saraceni che ancora sciamavano attorno a loro erano in procinto di ricompattarsi. Aveva ucciso i tre che li avevano avvistati e gli erano andati contro, quando erano riusciti a raggiungere le cavalcature si erano dati alla fuga dando le spalle al massacro. Non avrebbe mai saputo se gli infedeli avevano tentato di rincorrerli oppure li avevano ignorati. Per tutto il tempo non si era nemmeno accorto di perdere sangue in grandi quantità, fino a quando non era svenuto, ormai ben distante dalla Sorgente di Cresson, precipitando a terra senza una parola. «Insieme ad un fratello franco riuscimmo a recuperare alcune cavalcature e a fuggire con il Gran Maestro. Dietro di noi i musulmani festeggiavano e nessun cristiano, a parte noi tre, si salvò.»
    A quel punto tacque, attendendosi la marea di commenti ed improperi che sarebbe seguita. Era stato così ogni singola volta che aveva narrato gli avvenimenti, in ciascuna precettoria dove si era fermato.
    Sono morti novanta fratelli, forse era più saggio evitare una battaglia così palesemente priva di possibilità di vittoria!
    Non si poteva rifiutare lo scontro con gli infedeli, la Regola lo impone!
    Ma non per questo bisogna essere irragionevoli, il Gran Maestro ha peccato di eccessivo zelo!
    Non parliamo in questi termini, dobbiamo onorare il martirio dei nostri fratelli!
    Parole gridate, soffocate, confuse nell’indignazione, nel dolore.
    Valente si guardò intorno, il suo sguardo fu colto di nuovo dal cavaliere biondo, che sedeva con aria assorta, ma senza lasciar trasparire alcuna emozione. La cosa lo infastidì, chiedendosi se la sua palese bellezza gli desse la giustificazione per astenersi dal soffrire per quella terribile perdita.
    «Signori, vi prego, un attimo di attenzione. Fratello Valente ha condotto con sé alcune lettere vergate di pugno dal Gran Maestro in persona, che esorta al più presto l’invio di uomini nei territori di Outremer. La situazione con gli infedeli è piuttosto critica, sembra che alcuni nobili cristiani accettino patti con il sultano, molte Signorie rischiano di capitolare, la stessa Gerusalemme è in pericolo!» Ascanio si alzò in piedi, sollevando le braccia in alto per attirare l’attenzione. «Se le precettorie occidentali non si mobiliteranno al più presto anche i nostri domini potrebbero essere in pericolo!»
    Un altro cavaliere in età avanzata si alzò in piedi. «Torneremo al più presto ad Ancona e vedremo di mettere insieme un contingente.»
    «Così faremo noi!» acconsentì un secondo, annuendo con aria convinta, mentre i membri del suo seguito continuavano ancora a borbottare concitati.
    «Non c’è molto altro da discutere.» disse il cavaliere che guidava il gruppo dei fiorentini. «Ma sarà opportuno decidere anche tra noi come accordarsi per le partenze.»
    «Nella lettera sono specificati i luoghi di ritrovo, tra cui il castello di La Fève.» aggiunse Ascanio. «E comunque suggerisco di riunirci ancora una volta qui e di raggiungere insieme la prima Commenda per imbarcarsi poi per la Terra Santa.» Prima che gli altri cavalieri potessero rispondere il precettore si volse verso di lui. «Per ora puoi andare, grazie fratello Valente.»
    Valente si rimise in piedi. «Vi prego di tenermi in considerazione per la partenza.» esclamò, fissando Ascanio dritto negli occhi.
    «Se le tue ferite te lo permetteranno.»
    «Si tratta solo di un graffio alla gamba che stenta a chiudersi. Se necessario sarei pronto a partire domani stesso.» Non aggiunse altro. Stringendo le labbra il cavaliere s’incamminò claudicante verso la porta, lasciando i confratelli dell’Ordine al loro rumoroso disquisire.

    CAPITOLO 3

    Perugia, 28 giugno 1187

    Lo scriptorium era posto al piano superiore dell’edificio, in modo da permettere alla luce del sole di illuminare l’ambiente il più a lungo possibile e lasciare che gli amanuensi potessero operare durante tutto il giorno. Avendo avuto l’incarico di trascrivere le lettere del Gran Maestro per custodirne delle copie a Firenze e informare debitamente anche la loro precettoria, Learco si era diretto di buon’ora nella sala rivestita in legno per lavorare in tutta tranquillità. Gli scrittoi erano alti e ben distanziati tra loro, ma le panche erano particolarmente rigide e scomode, o così pareva al giovane abituato alle imbottiture ben più confortevoli in dotazione a Firenze. Sugli scaffali che correvano lungo le pareti e che coprivano anche gli spazi tra finestra e finestra si trovavano papiri e pergamene già scritti, suddivisi probabilmente tra documenti ufficiali, lettere, regolamenti e fogli da riutilizzare per nuove trascrizioni. L’aria era pregna del loro odore misto a quello delle tinte.
    Tra i copisti vi erano quelli che si mettevano all’opera senza leggere preventivamente il testo da trascrivere, magari era stato insegnato loro che la cosa che doveva interessare non era il contenuto bensì la leggibilità dello scritto; altri, come Learco, invece il testo se lo leggevano proprio per essere in grado di capire cosa dovevano copiare. In quel frangente pur conoscendo l’argomento delle lettere, e soprattutto pur consapevole di non gradirlo, non poté esimersi dal seguire la sua normale procedura e così cercò di decifrarle il più possibile prima di bagnare inutilmente il papiro.
    La prima lettera che gli era stata consegnata era abbastanza breve, ma presentava una grafia incerta, quasi che fosse stata scritta in tutta fretta o in una situazione precaria. Sospirò strusciandosi gli occhi e appuntò l’originale sul leggio, srotolò il foglio di papiro a lui destinato fermando anche quello agli angoli e infine prese il temperino per affilare la penna già discretamente usata.
    Attorno a lui gli unici rumori erano quelli dei fogli smossi e il raschiare dei pennini; i passi di Ermanno, il fratello di Mestiere addetto all’organizzazione dello scriptorium, erano lenti e cadenzati, di un uomo abituato a non infastidire i monaci a lavoro.
    Il fiorentino iniziò di malavoglia il suo compito concentrandosi su quei segni discontinui. Proseguì con una certa facilità fino a quando l’inchiostro cominciò a sbiadire sul foglio, controllò la punta per assicurarsi di non doverla affilare ancora, quindi si sporse per intingere nuovamente lo strumento nel calamaio.
    A quel punto si fermò a riflettere. Si trattava di una lettera vergata di proprio pugno da Gerardo di Ritfort in persona. Forse il templare superstite gli era stato al fianco anche in quegli attimi, forse gli aveva tenuto steso il foglio per scrivere…Il fiorentino scosse la testa. Impossibile: Valente Tancredi, o come si chiamava, era stato ferito a sua volta nello scontro e sicuramente aveva necessitato di cure urgenti.
    Il templare superstite… Learco non riusciva a togliersi dalla mente il corpo statuario segnato dai combattimenti e ancora ferito, l’acqua che scivolava luminosa dai capelli bagnati lungo le membra lunghe e tornite. E gli occhi – l’occhio! – color della giada, scintillava vigile quando aveva osservato duramente il giovane uomo del Tempio nella sua apparizione improvvisa e involontaria negli orti retrostanti gli edifici principali. Il suo volto era bello, non fosse stato per l’orrenda mutilazione che lo avrebbe segnato a vita. Sì, tutto in lui era bello, perfetto, armonioso. Bello e malinconico.
    Il suo istinto aveva avuto un fremito, spingendolo fin quasi ad offrirsi per detergergli la schiena, saggiare i muscoli delle possenti spalle, osservare da vicino la pelle cotta dal sole. E aveva rischiato di cedere alla tentazione, riprendendosi all’ultimo momento e ricordandosi che se anche era abituato a comportarsi in tal modo con Bertrand, gli uomini del Tempio non erano tenuti né tantomeno obbligati a svolgere quelle funzioni da scudiero.
    Ma la mente ormai vagava, e si immaginò ancora una volta come quella pelle potesse essere al tatto, forse ruvida e scostante come il cavaliere stesso, forse alla nuca liscia e morbida…
    Ebbe un sussulto. Mordendosi il labbro inferiore si ricordò dove era, e si maledisse per la macchia di inchiostro sul bordo del foglio e sul piano di legno, ma ancor più per il calore che gli aveva pervaso il volto e per il pensiero impuro che aveva portato il suo corpo a reagire indebitamente. Impuro! Certo, poteva pure permetterseli i pensieri impuri, di certo l’inferno non se lo sarebbe guadagnato soltanto per quelli!
    Represse una risata a stento, aggiudicandosi un’occhiataccia di Ermanno, quindi sospirando abbassò gli occhi e recuperò il panno atto ad asciugare il liquido e pulire il papiro strofinandolo con delicatezza. Asportò l’inchiostro in eccesso dal pennino e riprese a scrivere cercando di tenere la sua mente sul suo attuale lavoro, ma invano. Il cavaliere aveva catturato la sua attenzione, stimolato la sua curiosità, acceso la fiamma della sua personale polemica contro i templari.
    Doveva parlarci.
    Finì la trascrizione della prima lettera e passò alla successiva, imponendosi rigore. E stavolta vi riuscì, sapeva quello che doveva fare e quindi ora poteva concentrarsi sul momento attuale senza altre distrazioni.

    L’impresa richiese al fiorentino tutta la mattina, non dovendo preoccuparsi delle funzioni perché visto il compito assegnatogli era stato sollevato dal presenziare. Suonò la terza e a quel punto fu in grado di passare gli ultimi fogli ai fratelli di Ancona e Macerata e lasciò lo scriptorium con gli arti indolenziti e gli occhi arrossati.
    Una volta giunto alla foresteria si fermò a riflettere. Come avrebbe potuto avvicinarlo? Quale scusa poteva trovare?
    Si grattò la nuca perplesso e fece una smorfia di disappunto. Poi ripensò al giorno precedente e capì che l’unico aggancio che poteva avere era il racconto della disfatta delle forze templari. Difficile sarebbe stato nascondere il suo parere in merito, ma del resto come magister avrebbe potuto fare affidamento sulla sua arte oratoria. Sempre che il cavaliere non si dimostrasse più scaltro di lui…
    Si trattava soltanto di cercarlo, il pretesto per parlare con lui in disparte l’aveva già. Ma quella magione era un labirinto, si era già perso una volta e sarebbe stato molto facile farlo di nuovo. Nondimeno era intenzionato a portare a termine la sua ricerca.

    Iniziò dalle sale comuni, dove trovò alcuni fratelli di mestiere intenti a organizzare il proprio lavoro nelle cucine, altrove incappò nei cavalieri della sua precettoria che si godevano un momento di riposo e scudieri che si apprestavano a curare le armature dei loro superiori. Ma di lui non vi era traccia. Ebbe l’ardire di domandare, ma nessuno pareva averlo visto. Un giovane aiutante suggerì che forse si trovava nel suo alloggio a riposare vista la ferita, ma il più convincente fu il fabbro, fratello Gismondo.
    L’uomo nerboruto si voltò verso Learco squadrandolo da capo a piedi. Portava i capelli rasati, la folta barba ingrigita gli nascondeva le labbra ma non fu difficile riconoscere un sorriso. Gismondo stava lavorando a dei ferri per cavalli, ma quando si era sentito chiamare dal fiorentino aveva interrotto l’opera e si era asciugato il sudore con il braccio.
    «Non so che dirti ragazzo. Se non lo trovi nelle stalle prova a cercarlo in chiesa, o nella piccola cappella esterna al complesso. Fratello Valente soleva pregare là, prima di partire per la Terra Santa, non mi stupirei se volesse riprendere le sane abitudini.»
    «Ti ringrazio, mi sei stato veramente di aiuto.» lo salutò inchinandosi.
    Learco sorrise di se stesso: tra tutti i posti dove aveva pensato di cercarlo, l’ultimo era stato proprio un luogo di preghiera!
    Se lo avesse trovato davvero in chiesa perlomeno avrebbe avuto un motivo valido per tenersi alla debita distanza fisica e approfondire la conoscenza senza incorrere in errori fatali.
    Uscì dal cancello principale, a quell’ora del giorno ancora aperto, e si diresse con passo deciso nel bosco nella direzione indicatagli da fratello Gismondo.
    Assaporò l’aria profumata di effluvi boschivi e ascoltò di buon cuore il cinguettare degli uccelli che allietavano la zona. Gli venne in mente la sua arpa e si pentì di non averla portata con sé, sul carro avrebbe avuto spazio in abbondanza per trasportarla, ma tutto sommato era stato meglio così: sapere di averla vicina e non poterla suonare per mancanza di tempo sarebbe stata una tortura ancor più grande.
    Trovò la cappella dopo pochi minuti, una piccola struttura in pietra con pianta a croce immersa nella quiete del bosco vicina a un piccolo ruscello. Si avvicinò con cautela al portone aperto e fece per affacciarsi, ma si scontrò con un robusto petto vestito di bianco.
    Si morse le labbra per non esternare la sua sorpresa, poi quando vide che si trattava proprio di Valente e che il cavaliere a causa dello sbilanciamento subito stava indietreggiando in difficoltà accorse in suo aiuto.
    Come inizio non poteva essere peggiore!
    Nonostante la differenza di stazza fisica, Learco gli si affiancò repentino sorreggendolo e permettendogli di recuperare l’equilibrio. Inizialmente i due non si parlarono, si scambiarono soltanto uno sguardo mortificato da una parte e piuttosto seccato dall’altro, ma Valente si lasciò sostenere fino a quando non riuscì a tornare padrone delle proprie gambe, poi gentilmente ma con fermezza lo allontanò.
    Adesso tutto si complicava.
    «Vedo che hai l’abitudine di perderti.» tagliò corto l’umbro.
    Learco non riuscì a reprimere un sorriso ironico. Si meritava quella battuta del resto.
    «In realtà per una volta credo di essere capitato nel posto giusto.» rispose fingendosi imbarazzato. «Mi avevano suggerito di cercarti qui, e così ho fatto.»
    Valente lo osservò serio. La sua aria perennemente imbronciata metteva a disagio il fiorentino, avrebbe dovuto trovare il modo di fargli cambiare espressione!
    Vedendo che il cavaliere rimaneva in attesa di una delucidazione, l’altro si affrettò a fornirla.
    «Ho l’incarico di stilare il rapporto della delegazione fiorentina e di mettere per iscritto il tuo resoconto su quanto accaduto alle fonti di Cresson. Ti sarei molto grato se volessi darmi ulteriori informazioni su alcuni punti.» disse cercando di apparire il più naturale possibile. «Ieri ho annotato qualcosa ma per certe questioni ho perso tempo e ho scritto di tutta fretta.»
    A capire il loro accento così stretto sarebbe stato sicuramente tutto più facile!
    «Posso concederti il tempo che rimane fino alla prossima funzione.» rispose secco Valente.
    Ovvio, non lo avrebbe mai distolto dai suoi compiti principali, ma era dispiaciuto per lui, non gli avrebbe permesso di cavarsela con così poco tempo!
    «Ti ringrazio per la tua disponibilità. Tuttavia approfitterei della tua pazienza e ti chiederei più tempo, anche domani se non è un fastidio per te. Non posso permettermi altri giorni però, altrimenti rischio che le tavolette di cera mi abbandonino.» rispose scherzando, ma l’altro non parve cogliere l’ilarità dell’affermazione.
    «Torniamo verso la magione.»
    Learco annuì e gli si affiancò a destra, valutando che forse per l’altro sarebbe stato più facile vederlo, dato lo stato del suo occhio sinistro. Si incamminarono in silenzio.
    «Come procede la ferita? Si sta rimarginando?» gli chiese a un certo punto.
    «Con lentezza, ma sì.»
    «Immagino che i fratelli infermieri utilizzino unguenti che favoriscano la cicatrizzazione, del resto il tuo viaggio di ritorno non deve certo aver aiutato la guarigione.»
    «Tu non sei un fratello di Mestiere.» Non si trattava di una domanda, era una semplice constatazione quella del cavaliere.
    Cambiava qualcosa se lui non era un monaco?
    «Non sono un fratello di mestiere, giusta osservazione.»
    Doveva dire di più? Doveva dare spiegazioni sul perché si trovava lì?
    «Il mio nome è Learco de’ Guineldi. Sono un uomo del Tempio, e mi occupo prevalentemente di tenere la corrispondenza e gli annali per gli avvenimenti che riguardano in primo luogo la nostra comunità,» spiegò «ma se ti chiedi il motivo per il quale hanno incaricato me di seguire la delegazione fiorentina anziché un monaco, dovresti informarti presso il cavaliere responsabile del nostro gruppo, fratello Roberto de’ Pazzi. Lo hai sicuramente notato ieri durante la riunione, è quello con la barba folta.»
    Il tragitto scelto da Valente pareva molto più breve rispetto a quello trovato da Learco, nonostante la lentezza con cui procedevano. Già tra gli alberi si potevano scorgere le mura dell’edificio e il cancello d’ingresso, con il movimento pomeridiano che caratterizzava di norma i complessi monastici dei templari. Learco sospirò.
    «Cosa volevi sapere in merito a quanto accaduto a Cresson?» chiese d’un tratto il perugino.
    Era veramente di poche, pochissime parole. Sarebbe stato lecito rispondere con un’altra domanda? Perché lui si trovava lì così giovane e già con una cicatrice tanto vistosa? Veterano di guerra o discolo da rimettere sulla retta via?
    Evitò, non lo aveva cercato per inimicarselo, tutt’altro. Soltanto che il cavaliere lo stava mettendo a dura prova!
    «Vorrei approfondire alcuni...»
    Ma non fece in tempo a finire la frase. Fratello Roberto lo aveva visto in lontananza e pareva cercarlo. Assieme a lui si trovavano Bertrand e fratello Marsilio e tutti e tre si diressero verso di lui.
    «A quanto pare non subirai la mia ingrata presenza!» disse allegramente il fiorentino al suo interlocutore, che comunque rimase impassibile.
    «Magister ci stavamo domandando dove fossi finito.» fece Roberto non appena raggiunse i due giovani.
    Bertrand lo guardava sogghignando, e perdendosi nei suoi occhi limpidi non notò il sussulto del suo silenzioso compagno.
    «Mi cercavate per un motivo particolare, fratello Roberto?» domandò sorridendo forzato.
    «Hai finito il tuo lavoro?»
    «Ho trascritto le lettere. Devo soltanto compilare il resoconto di ieri.»
    «Ebbene, sai che a Firenze sono impazienti e lo desiderano al più presto, quindi…» l’espressione del templare più anziano non lasciava adito a dubbi. Ovviamente si aspettava di averlo pronto l’indomani mattina.
    «Lasciate che intanto vi presenti.» Lo interruppe irritato, poi si rivolse a Valente. «Questi sono fratello Roberto de’ Pazzi, cavaliere e precettore della nostra magione, fratello Bertrand de Vannes, anch’egli cavaliere, e il fratello di mestiere Marsilio Buontempi. Costui come ben sapete è fratello Valente Tancredi»
    «Fratello Valente, ti chiedo perdono a nome di tutta la delegazione fiorentina se il magister ti ha importunato.» lo salutò Bertrand, con il consueto sorrisetto stampato sulle labbra.
    Learco rimase interdetto, mentre gli altri due compagni del bretone sorridevano divertiti. Possibile che gli venisse così naturale essere odioso? La prossima volta si sarebbe vendicato con un morso ben studiato sulle sue robuste natiche!
    «In realtà non mi ha importunato.» commentò il perugino, cogliendo non poco di sorpresa Learco.
    «Ho chiesto a fratello Valente un aiuto per rendere più completa la narrazione di quanto accaduto durante la nostra missione e soprattutto per avere un quadro migliore dei fatti di Cresson.» spiegò il giovane, sempre più irritato.
    «Suvvia magister non avertene a male.» fece Bertrand bonariamente. «Fratello Roberto ha il dovere di inviare il prima possibile le carte a Firenze, affinché il nostro consiglio possa essere debitamente informato.»
    «Sei ancora dispensato dal partecipare alle funzioni, ragazzo, quindi hai la possibilità di mettere mano al tuo lavoro indisturbato.» aggiunse Roberto.
    Era inutile insistere. Learco abbassò il capo in segno di resa, poi si voltò verso Valente. «Ti ringrazio per esserti detto disponibile ad aiutarmi, ma a quanto pare devo tornare subito ai miei scarabocchi. Ti chiedo scusa se ti ho rubato del tempo prezioso.»
    Il perugino ricambiò lo sguardo. «Abbiamo ancora tempo fino alla prossima funzione.»

    Continua nel post sotto...

    CITAZIONE

    CAPITOLO 4


    Pregare nella piccola Cappella dedicata a San Giorgio che sorgeva a ridosso del bosco di faggi gli era sempre piaciuto: ormai quasi più nessuno vi si recava, considerandola angusta, sporca e buia; ma era proprio per il senso di emarginazione che effondeva da quelle vecchie mura che Valente vi aveva saputo trovare più volte conforto. Una sorta di rifugio sicuro nei momenti più disperati della sua vita.
    O nei momenti di debolezza.
    Quando il giovane fiorentino era arrivato fin lì scontrandosi con lui sul portale d’ingresso rischiando di farlo cadere in terra, aveva provato di nuovo un forte fastidio. Quel tipo dai pungenti occhi scuri sembrava avere la straordinaria e sgradevole capacità di erompere nella sua vita nei momenti di solitudine che amava ritagliarsi.
    Tuttavia, quando gli aveva spiegato cosa lo aveva condotto sin lì, Valente aveva sospirato tra sé, considerando che in fondo si trattava solo di lavoro e nessuno era tenuto ad oziare fra i Templari, che fossero cavalieri, sergenti, scudieri o uomini del Tempio, in nessuna circostanza. Per cui la sua irritazione era rapidamente scemata e lui si era tacitamente rassegnato a ripetere, spiegare e chiarire per l’ennesima volta quanto accaduto quella terribile mattina di maggio.
    Non fosse stato per l’incontro avuto poco prima con i compagni del fiorentino, in cui si era ritrovato di nuovo costretto a sostenere lo sguardo azzurro del templare bretone, motivo principale per cui Valente aveva cercato riparo nella piccola cappella del bosco, ora non avrebbe avuto di nuovo la fronte corrucciata e un’andatura sostenuta che gli faceva pulsare dolorosamente la ferita alla coscia.
    Si stava recando con Learco presso il cortile interno della magione in cerca di un luogo sufficientemente tranquillo per poter parlare. Valente non trovò nulla di meglio che condurlo verso gli orti. A quell’ora del pomeriggio vi si trovavano un paio di uomini, poco distanti da loro chini a raccogliere ravanelli. Quando li videro arrivare sollevarono il capo giusto il tempo di salutarli e subito ripreso a sterrare le rosse radici gettandole nei cestini di paglia vicini.
    Il cavaliere raggiunse il solito muretto e sedette, allungando cautamente la gamba dolorante e assestando la lunga veste bianca attorno al corpo. Learco prese posto accanto a lui.
    «Sei proprio sicuro di non dover prendere appunti?» chiese per la seconda volta Valente, aveva già fatto quell’osservazione e il giovane aveva detto che era sufficiente la sua memoria, almeno per quella specifica circostanza; avrebbe fatto le aggiunte in fase di stesura definitiva. Contava di terminare lo scritto quella sera stessa. Era assai probabile che la delegazione fiorentina volesse ripartire l’indomani.
    «Scriverò più tardi quello che mi dici, ho buona memoria.» ribadì il fiorentino, sorridendogli con aria compiacente.
    A quel punto il moro tacque, in attesa che l’altro iniziasse a fargli domande. Rimasero per qualche lungo istante in silenzio. Gli occhi di Learco continuavano ad inquietarlo, sembrava squadrarlo con una meticolosità che andava oltre la pura attenzione, sfiorando pericolosamente l’interesse.
    Così, per cercare in qualche modo di dissimulare il disagio, alzò una mano e si grattò la lunga cicatrice che partiva dall’occhio sinistro solcandogli zigomo e guancia.
    Quel gesto diede in qualche modo l’avvio alla loro conversazione, che prese da subito una piega che l’umbro non si sarebbe mai aspettato.
    «Quando ti sei procurato quella terribile ferita al volto?»
    Anche se colto alla sprovvista, il cavaliere ritenne di dover rispondere: «È successo nel ’79, al Guado di Giacobbe, che in arabo è chiamato Marj Ayun. In seguito ad un’imboscata dell’esercito del generale Salāh al-Dīn.»
    «Un’altra dura sconfitta, eh?» commentò senza andare troppo per il sottile l’altro.
    Valente gli scoccò un’occhiataccia. «Quella stessa mattina avevamo affrontato con successo un folto gruppo di scorridori musulmani. Ormai certi della vittoria ci eravamo fermati a rifocillarci tra alcune alture e il fiume Litani. Il grosso delle truppe nemiche ci è piombato addosso che eravamo completamente impreparati. Il mio mentore è morto in battaglia, con una freccia in gola che gli ha trapassato gorgiera e carne, molti fratelli sono rimasti cadaveri sul campo e il Gran Maestro di allora è stato catturato, spegnendosi come prigioniero degli infedeli pochi mesi dopo.»
    Il fiorentino sollevò i palmi davanti a sé, pacificatore. «Ti chiedo perdono se ti sono sembrato scortese! Immagino che sia stato un giorno veramente orribile della tua vita.»
    Valente osservò per qualche istante il profilo grigio delle mura dell’abbazia di San Giustino, dove i raggi solari che delimitavano le chiome degli alberi da frutto alle loro spalle proiettavano ombre trasparenti. «Una scimitarra mi ha colpito in pieno viso. Credevo mi avesse spaccato la testa, invece ha solo scalfito l’osso dello zigomo e del sopracciglio, anche se, successivamente, gli infermieri del Tempio hanno dovuto raschiare via ciò che restava dell’occhio.» Al mugolio di vago disgusto che sfuggì all’altro, il cavaliere fece un bieco sorriso. «Dio ha avuto pietà di me. Una ferita del genere sarebbe stata mortale per molti.»
    «Graziato due volte, allora.»
    «Cosa?»
    Valente si volse a guardarlo in faccia foscamente, ma l’altro si schermò di nuovo, frettoloso. «Nulla di importante. Mi chiedevo: quindi hai passato molti anni in Outremer se è vero che sei rientrato in Italia solo dopo l’infausto avvenimento di Cresson.»
    «Sono partito con il mio mentore che ero ancora un Sergente, nel 1176. Avevo quindici anni.»
    «Quindici anni? Poco più che un fanciullo!» esclamò Learco, stupito. Poi strinse i sottili occhi con aria meditabonda. «Ne deduco che ora hai ventisette anni. Ti credevo più giovane, nonostante il tuo aspetto da veterano.»
    Valente non poté fare a meno di notare la velocità di calcolo. «Non sono affatto giovane. Per di più a quindici anni ero perfettamente abile al combattimento.» Fece una pausa, soffermandosi a valutare che in effetti la sua giovinezza si era interrotta così presto che gli sembrava di essere passato dall’infanzia all’età adulta con un fugace, e non certo indolore, balzo. «Ho passato undici anni in Outremer a servire il Tempio e Dio lo sa se non ripartirei anche domani.»
    «Quale fervore per la causa, non è da tutti.» osservò placido il suo interlocutore.
    «Sono un Templare, un cavaliere di Cristo. Ho votato il mio spirito a questo e non c’è altro motivo per cui io viva.»
    A quell’ultima affermazione Learco inclinò leggermente la testa verso sinistra e con lo sguardo sembrò iniziare a scavare in lui, tacitamente.
    «Cosa c’è?» domandò Valente, cominciando a pensare che quell’uomo avesse qualcosa di sinistro, qualcosa che traspariva dal luccichio cupo dei suoi occhi, dalle labbra piene che si arricciavano appena agli angoli, donandogli un’emblematica espressione di ironia sottintesa persino nei suoi silenzi.
    «Ad essere onesti, fratello Valente, mi sorprendi non poco. Era da tanto che non incontravo persone così limpide.»
    Limpidezza? Valente non sapeva esattamente cosa volesse intendere Learco con quel termine, ma lui non si sentiva affatto limpido. Non certo dopo aver passato una notte intera a lottare con le indegne pulsioni del suo corpo e con i pensieri che ricorrevano ribelli ad un’unica bionda chioma o ad un chiaro brandello di pelle lasciato scoperto dal colletto della camicia. «Non dovevi chiedermi chiarimenti sulla battaglia di Cresson?» chiese inasprito, accorgendosi con irritazione che quell’uomo era praticamente riuscito a farlo parlare di sé più di chiunque altro, insinuandosi anche in pieghe che mai avrebbe voluto mettere in mostra.
    «Certamente, stavo per l’appunto per cominciare. Nel tuo resoconto hai parlato di un assalto nei confronti di un gruppo di infedeli che aveva richiesto una tregua con il Conte di Tripoli, giusto?»
    «Sì, Raimondo di Saint-Gilles. Sfortunatamente questo nobile cristiano non ha accettato Guido di Lusignano come nuovo sovrano, giungendo persino a pianificare questa indegna alleanza con gli infedeli, pur di detronizzarlo. Una situazione del genere non poteva essere tollerata da alcuno che si ritenga onorevolmente cristiano.»
    «E questo sarebbe il motivo per cui il Gran Maestro ha radunato nel giro di una notte il contingente Templare per andare a scontrarsi con settemila unità nemiche?» In quella domanda c’era di nuovo del sarcasmo, per giunta malamente velato. Avrebbe forse dovuto indignarsi per tanta aperta sfrontatezza, ma in fin dei conti Valente non si sentiva di recriminare. Learco, come altri, come lo stesso Maresciallo del Tempio morto poi durante il massacro, vedeva soltanto la spinta insensata di un uomo che provava comunque un certo rancore personale verso il Conte di Tripoli, e quella era cosa risaputa.
    Vero era che Valente non poteva pensare che novanta fratelli fossero morti per il risentimento di un singolo, preferiva credere che il tutto fosse stato dettato unicamente da un sincero fervore per la causa, da una convinta lotta contro gli infedeli, che ancora dominavano su gran parte di quella che era Terra Sacra per tutti i cristiani. «Un Templare non rifiuta mai lo scontro, e se questo conduce al martirio ben venga.» Mentre pronunciava quelle parole gli sembrò di udire in sottofondo l’eco della voce di suo zio che recitava quella stessa frase. Pure a distanza di anni dalla morte, come un tetro fantasma, continuava a tenere poggiata una gelida mano sulla sua spalla.
    «Dove si è recato l’altro sopravvissuto?» continuò Learco.
    «Alla Precettoria di Parigi. Abbiamo il compito di diffondere le lettere di richiamo del Gran Maestro. La situazione in Outremer non è affatto delle migliori, il generale musulmano è un abilissimo stratega, la sua marcia di riconquista pare inarrestabile e inoltre molti tra i nobili cristiani sembra preferiscano farsi la guerra tra di loro piuttosto che concentrarsi sul nemico comune.» rispose con amarezza. «La situazione è critica.»
    «Lo sento.»
    Rimasero di nuovo in silenzio. I due uomini indaffarati nell’orto terminarono la loro mansione e con i cesti appoggiati sulla spalla sinistra si avviarono verso le cucine dell’abbazia. Passando rivolsero loro un leggero inchino, nulla più.
    Valente pensò distrattamente che non ricordava i loro volti, evidentemente dovevano essere entrati al servizio della magione in tempi recenti. Molte facce che appartenevano ai suoi ricordi erano svanite da quando aveva lasciato Perugia per raggiungere le calde colline della Terrasanta e nuove le avevano sostituite. In effetti, in quegli anni l’abbazia si era molto ingrandita, altri cavalieri si erano aggiunti, oltre a scudieri, sergenti e Fratelli di Mestiere. L’ordine del Tempio stava crescendo in fama e potere e, nonostante le gravissime perdite di uomini nelle innumerevoli battaglie per la Cristianità, quella crescita sembrava inarrestabile. Sollevò il capo, tornando a sfiorare la palpebra chiusa dell’occhio sinistro, avvertendo con quel senso di malessere che non veniva mai meno l’orbita vuota sotto il polpastrello. «Hai altre domande per me? Forse comincia ad essere il momento che io mi prepari per i vespri.»
    «No, ti ringrazio molto fratello Valente.» Learco si rimise in piedi, scrollando con una mano la tunica nera su cui erano rimasti i polverosi segni del vecchio muretto. «Ti chiedo ancora una volta scusa se ti ho importunato con domande forse sgradite.» Così dicendo gli porse una mano.
    Valente si lasciò aiutare ad alzarsi. «Non devi scusarti di nulla. Mi auguro semplicemente che anche le magioni e le precettorie toscane rispondano rapidamente all’appello del Gran Maestro.»
    Il giovane fiorentino gli rivolse un misterioso sorriso. «Speriamo. Ora vado anch’io, prima che fratello Roberto torni a cercarmi per condurmi di peso allo scriptorium. Ci rivedremo di nuovo prima della partenza del mio gruppo?»
    Alla domanda Valente sfuggì con lo sguardo. Ciò poteva forse significare tornare ad affrontare il cavaliere biondo. «Non saprei, è mia intenzione ripartire presto per la Terrasanta e ciò mi obbligherà a rimanere a lungo a letto per tentare di far rimarginare a sufficienza la mia ferita.»
    «Capisco.» Learco sembrò quasi deluso. Fece un rapido inchino e si incamminò verso il sentiero che lo avrebbe ricondotto al cortile interno dell’abbazia.
    Lo osservò allontanarsi, osservò l’andatura ben impostata, la figura snella che s’inoltrava nell’ombra del chiostro. Lo richiamò poco prima che sparisse oltre il porticato, sorprendendo soprattutto se stesso. «Learco de’ Guineldi?»
    L’uomo si voltò.
    Non riusciva quasi a credere che stava davvero per chiederglielo. «Fratello Bertrand de Vannes da quanto tempo si trova in Italia, presso la precettoria fiorentina?»
    Non riusciva ben a distinguere l’espressione del viso di Learco, trovandosi quest’ultimo proprio nella zona di penombra che facevano le mura sotto al brillante sole di fine primavera.
    «Qualche anno, credo.» fu la risposta, dopo alcuni secondi di silenzio.
    «Non ha mai pensato di venire in Outremer a combattere gli infedeli?»
    Ancora titubanza.
    Valente non aveva idea del perché stava facendo tutto quello, aveva passato una notte e un giorno interi a cercare di toglierselo dalla testa ed ora si ritrovava quasi a sperare che il bretone accettasse di partire insieme alle altre delegazioni del centro Italia verso la Terrasanta. Insieme a lui.
    «Temo che questo dovresti chiederlo al diretto interessato.» Nel confondente chiaroscuro Valente notò le labbra di Learco stringersi.
    Annuì, frustrato e troppo arrabbiato con se stesso per aggiungere altro.
    Il fiorentino gli volse le spalle e si allontanò. Rimasto solo, Valente decise che si sarebbe incamminato verso la cappella, anche se la campana dei vespri non aveva ancora suonato, e si sarebbe inginocchiato davanti all’altare in attesa dell’arrivo degli altri fratelli. Non sapeva cos’altro fare, erano troppi anni che non provava simili, terribili emozioni e non riusciva più ad affrontarle, non riusciva a soffocarle e, in quel frangente, non poteva permettersi di usare il flagello, il suo stato fisico e l’urgenza della situazione non glielo consentivano, sarebbe stato da sconsiderati.
    Eppure, mentre zoppicava lentamente verso la chiesa principale del complesso, Valente desiderava ardentemente provare dolore fisico.

    CAPITOLO 5

    Bertrand in Outremer… Bertrand non avrebbe mai accettato di rinunciare a certi agi neanche se lo avessero minacciato di metterlo al rogo! L’idea lo faceva quasi ridere, ma si trattenne.
    Anche perché senza contare l’assurdità dell’idea, qualcos’altro aveva colto l’interesse di Learco. Una domanda diretta, senza mezzi termini. Una domanda talmente ovvia che lo aveva spiazzato.
    Si soffermò poco dopo essere uscito dagli orti della magione, piuttosto perplesso. Perché tanto interesse nei confronti del bretone, se non si erano scambiati neanche due parole?
    Certo, la bellezza di Bertrand era innegabile, pareva nato a immagine e somiglianza dei serafini, con i suoi sottili capelli biondi e gli occhi di una trasparenza cristallina. Oltretutto aveva modi gentili e misurati, era il ritratto stesso della modestia – falsa modestia, ma questo gli altri non potevano saperlo – affabile e con una parola di conforto per tutti.
    Ad ogni modo Valente Tancredi lo aveva visto sì e no due volte e lo aveva incontrato di persona soltanto una. Possibile che Bertrand lo avesse colpito così tanto in così poco tempo?
    Learco si morse il labbro e sempre immobile voltò la testa verso gli orti. Valente non poteva essere al corrente dell’eventuale valore in battaglia del bretone, non era particolarmente famoso per quello del resto. Quindi perché tanto interesse nei suoi confronti?
    Non era certo una donna che poteva morire per un suo sorriso.
    No, non era una donna.
    Il giovane scosse il capo sbuffando e riprese a camminare. Quel perugino si stava rivelando ancor più interessante di quanto si aspettasse. Ma adesso non poteva indagare oltre, o fratello Roberto gli avrebbe dato modo di detestare ancor più i templari!
    Passandosi le dita tra i corti riccioli riprese a camminare speditamente raccogliendo le idee per quanto doveva scrivere, ma prima aveva ancora qualcosa da sbrigare: lo scriptorium andava benissimo e lui aveva il permesso di usarlo anche tutta la notte se necessario. Di sicuro non lo avrebbe usato da solo!

    Le ombre ormai erano padrone della stanza dalle pareti di legno, la lampada a olio riluceva tremolante al bordo del tavolo. Learco si strusciò gli occhi sgranchendosi la schiena e lasciando che uno sbadiglio si liberasse indisturbato.
    Doveva essere ormai prossimo il battito delle Laudi e di conseguenza anche l’arrivo del suo amico. Era riuscito ad incontrarlo, ancora in compagnia di fratello Roberto, e a fargli capire che, come al solito, lo aspettava dopo le Laudi, anche se per una volta sarebbe cambiato il luogo dell’incontro. Learco sapeva che Bertrand aveva capito, ma non sapeva se avrebbe accettato l’invito oltremodo pericoloso.
    Nell’attesa si mise a leggere nuovamente i fogli che aveva sullo scrittoio, sorridendo quando l’occhio scorreva sulle parole dove era consapevole di aver fermato la mano prima di scrivere in modo avventato qualche invettiva contro coloro che gli davano lavoro. Sghignazzò. Talvolta aveva l’impressione di aver preso troppo alla lettera certi insegnamenti del suo primo tutore e del suo maestro di vita, ma non riusciva proprio a trattenersi quando notava quelle che per lui erano la pomposità e la vacuità dei precetti templari.
    Poco dopo la campana delle Laudi avvertì dei passi lungo il corridoio e qualcuno che si soffermava dietro la porta che permetteva l’accesso allo scriptorium. Bertrand aveva capito e accettato l’invito a quanto pareva. Sorrise quando alle sue spalle avvertì l’uscio aprirsi e chiudersi, ma non si mosse, rimase seduto al suo posto.
    Dei passi misurati si avvicinarono a lui, poi il bretone lo cinse alla vita e Learco curvò la schiena verso le sue spalle per permettergli di baciarlo sul collo. «Eccomi Irio.» gli mormorò con voce bassa e sensuale «La comodità non è cosa di cui ti piace abbondare.» osservò Bertrand mentre faceva scivolare le dita lungo il suo ventre.
    «Avresti un’idea migliore?» chiese sornione il fiorentino allungandosi ancora e divaricando leggermente le gambe. «Almeno qui non avrai mai modo di far entrare una donna!»
    Le mani calde del biondo raggiunsero il loro obiettivo e afferrarono l’oggetto della loro cerca da sopra la tunica nera e la veste. «Proprio non vuoi perdonarmi, eh magister?»
    Ma Learco lo fermò mordendogli il labbro inferiore. «Dovrai dimostrarmi di meritare il mio perdono.» commentò guardandolo dritto negli occhi. «Intanto raggiungi il tavolo là davanti.» gli ingiunse scendendo dalla panca. «E spogliati.»
    Il bretone sogghignò e non se lo fece ripetere due volte. Lentamente e con ostentata noncuranza si avviò verso lo scrittoio indicatogli da Learco, sfilandosi al tempo stesso la tunica bianca. Lanciò uno sguardo ammiccante al fiorentino mostrandogli che sotto non indossava niente.
    Learco sorrise nel dirigersi alla porta per chiuderla da dentro con il chiavistello. Tornando verso il cavaliere anche il giovane si tolse gli indumenti portandosi le mani al membro già piuttosto in tensione. Doveva riconoscere a Valente che non si poteva resistere facilmente all’avvenenza del bretone, ma il motivo per cui in quel preciso istante gli fosse tornato in mente quel templare scostante non avrebbe saputo dirlo. Di certo avrebbe trovato intrigante mostrargli il bel monaco in quel frangente, soprattutto quando lo raggiunse afferrandolo per i capelli e baciandolo, costringendolo poi a mettersi carponi di fronte a lui e accogliere tra le labbra la sua asta.
    Era questo che il templare perugino voleva? Avrebbe dovuto lottare per avere Bertrand, non gli sarebbe bastato convincerlo ad andare con lui. In Terra Santa persino! Ridicolo!
    No, Valente non conosceva Bertrand e in qualche modo glielo avrebbe dimostrato.
    Guardò il soffitto buio, illuminato soltanto dalla luce della lampada che si faceva sempre più fioca.
    «Bertrand…tu…tu ti recheresti in Outremer per la gloria del tuo ordine?» chiese a un certo punto il fiorentino quasi soprappensiero.
    Il biondo bretone fermò i movimenti del collo e liberò il membro dalla stretta, ma continuò comunque a baciarlo e carezzarlo per tenerlo in tensione. «Non è da te una domanda del genere magister…»
    Dovette riconoscere che l’uomo aveva ragione: non era una domanda che Learco avrebbe fatto in modo così diretto, piuttosto avrebbe criticato una decisione del genere e l’avrebbe osteggiata con qualsiasi mezzo gli fosse stato concesso. Nondimeno insisté: «Potrebbe essere richiesta la tua presenza…» rispose senza guardarlo, lo prese però nuovamente per i capelli. «Voltati!» gli disse con un tono che non ammetteva repliche.
    Il cavaliere lo osservò perplesso, ma non oppose resistenza. Appoggiò le braccia lungo la panca afferrandone i bordi e si mise carponi di fronte a lui offrendoglisi senza aprire bocca.
    Bertrand era suo. Non lo amava, certo che no, ma nessun altro avrebbe mai e poi mai dovuto possederlo. Non lo avrebbe mai permesso, e se davvero quello era ciò che Valente voleva, se davvero era così, beh, Learco non avrebbe ceduto facilmente.
    Inumidì la fessura a malapena, poi dette la prima violenta spinta. Bertrand soffocò un grido e provò a protestare, ma Learco non desistette e continuò a spingere fino a penetrarlo completamente.
    Ma perché di fronte a sé continuava a vedere il cavaliere perugino? Forse perché rappresentava una sfida per lui?
    Sì, era una sfida. Che avrebbe ovviamente vinto.
    Abbassò gli occhi sulla schiena ampia di Bertrand e sorrise. Prima o poi, sotto di lui ci sarebbe stata una schiena sì ampia, si possente, ma segnata dalle battaglie. E sarebbe stata una schiena con la pelle cotta dal sole!
    Si scaricò completamente in Bertrand, poi ansante andò a sdraiarsi sulla panca subito dietro. Non riusciva a capire cosa gli era preso, il motivo di tanto accanimento. Forse era la consapevolezza di aver preso interesse in un uomo che in realtà di lui ben poco si curava e che verosimilmente lo considerava un impiccio. O forse lo infastidiva davvero sapere che quell’uomo lo ignorava perché interessato ad un altro? Non in una donna, ma in un cavaliere suo pari.
    Tenendosi una mano sulla fronte frenò a malapena una risata. Povero me, pensò, come sono ridotto male!
    Quando Bertrand gli toccò gentilmente una coscia sussultò colto di sorpresa.
    «Perché quella domanda Irio?» Gli chiese prima di baciarlo all’inguine.
    «È possibile che addirittura prima del nostro rientro a Firenze vengano presi accordi per la nuova spedizione in Terra Santa.» gli rispose senza muoversi.
    Il bretone si sdraiò su di lui togliendogli quasi il respiro. «Nessuno ha detto che chi ha partecipato alla delegazione e ha sentito con le proprie orecchie il racconto di quanto accaduto è precettato anche per l’altra missione.» fece il templare, sogghignando mentre il fiorentino cercava di riprendere fiato. «O suvvia Irio, mica sono così pesante…» lo schernì.
    «Sei praticamente il doppio di me!» ritorse Learco.
    Bertrand lo osservò sorridendo, ma non aggiunse altro. Si girò offrendogli il suo sesso mentre con la bocca afferrava di nuovo quello del fiorentino, blandendolo con la lingua e stuzzicandolo, poi lo ingoiò ancora lasciando che Learco facesse altrettanto.
    Se quella era una risposta, il giovane riccioluto non aveva dubbi: a Bertrand de Vannes non sarebbe mai venuto in mente di partire per una crociata…

    Continuarono a lungo ad amarsi, fin quasi al rintocco della prima, e si risistemarono giusto in tempo per poter presenziare alla funzione senza dare adito a sospetti, nonostante a detta di Learco si vedeva benissimo che i due non avevano dormito e che, mentre l’uomo del Tempio poteva addurre come scusa la necessità di finire in tempo la stesura del resoconto, dare una spiegazione plausibile per il cavaliere sarebbe stato ben più difficile.
    Il bretone però era abituato a schivare certe domande, ma ancora non sapeva, contrariamente al giovane riccioluto, che uno sguardo in particolare si sarebbe posato su di lui con insistenza, uno sguardo a cui sarebbe stato difficile nascondere la verità. Ma di questo Learco ben poco si curava, anzi, se Valente avesse avuto il minimo dubbio sull’accaduto, era tutto di guadagnato.
    Dopo la messa comunque i delegati fiorentini furono riuniti da fratello Roberto.
    «Ebbene magister, hai niente per noi?» chiese in tono sarcastico il responsabile della missione.
    Learco lo guardò con la consueta aria di sfida. Era inutile che si sforzasse, quel monaco non gli sarebbe mai piaciuto. Sospirando si alzò e consegnò a Roberto i rotoli di papiro pronti per essere spediti.
    Il monaco guardò i fogli compiaciuto. «Bene, fratelli, entro oggi questi fogli lasceranno questi luoghi per raggiungere Firenze. Rimane da decidere chi accompagnerà le lettere alla nostra magione e chi invece rimarrà qui a definire gli accordi per la partenza verso la Terra Santa, luogo da difendere dagli infedeli per la gloria di Dio.» L’uomo si accarezzò la folta barba e osservò a lungo i suoi compagni. «Per anzianità lascerei a fratello Marsilio il compito di trasportare personalmente i rotoli, immagino tu sia d’accordo magister.» fece Roberto riprendendo a parlare e fissando lo sguardo su Learco.
    Il giovane si morse le labbra. Rimandare Marsilio a casa e lasciare lui a Perugia poteva sembrare una concessione al frate più anziano, ma Learco non aveva dubbi sul fatto che ci fosse un secondo fine che di sicuro Roberto avrebbe rivelato soltanto al momento opportuno. E tutto sommato per lui ciò voleva dire avere ancora tempo per studiare da vicino il suo nuovo oggetto di indagine. Con un sorriso di circostanza quindi, l’uomo del Tempio chinò leggermente la testa in segno di assenso.
    «Per il momento anche io rimarrò qui a Perugia per i motivi che dicevo poc’anzi. Chiedo però a fratello Gusberto e fratello Enrico di voler accompagnare Marsilio nel suo viaggio di rientro, per protezione e per raccontare ancora quanto abbiamo potuto udire in queste terre.» Si voltò infine verso il bretone, che con altri due templari sarebbe rimasto come delegato fiorentino. «E voi fratelli, Paolo, Armando, Bertrand. Voi avete mai accarezzato l’idea di servire finalmente nostro Signore con le vostre spade, come il nostro ordine devoto alla causa cristiana richiede?»

    CAPITOLO 6

    Perugia, 18 giugno 1187

    Quando i frati rientrarono nel dormitorio dopo aver assistito al mattutino, Valente sospirò e si portò un braccio sopra gli occhi. Fuori dal convento era ancora buio, il sole sarebbe sorto da lì ad un'ora circa. Erano due giorni che praticamente non si alzava dal letto, con il beneplacito del precettore. Non ne poteva proprio più. Aveva alla fine acconsentito al riposo assoluto per due motivi: il primo era che in effetti la ferita alla sua gamba stentava a chiudersi completamente, forse a causa delle continue sollecitazioni a cui la sottoponeva e il secondo, invece, la speranza di evitare il contatto con quel biondo templare fiorentino che tanto si ostinava ad imperversare nei suoi pensieri.
    Sapeva che quel giorno le delegazioni di Firenze, Macerata e Ancona sarebbero ripartite per le loro rispettive magioni per comunicare alle altre case templari sotto la loro giurisdizione le informazioni, per raccogliere uomini e armamenti e organizzare le spedizioni. Inoltre era dalla sera prima che la ferita non doleva più come in precedenza. Quelli erano già due validi motivi per alzarsi ed andare ad assistere alla prima.
    Sentiva fortemente il bisogno di rimettersi in attività, l'ozio obbligato non faceva che aumentare la sua ansia interiore. Sorrise amaramente fra sé, considerando il fatto che durante gli anni trascorsi in Outremer aveva avuto la presunzione di ritenersi spiritualmente fortificato, invece l'essere tornato ai luoghi della sua infanzia, così pregni di tanti e spiacevoli ricordi, e aver incontrato un uomo dalle sembianze d'angelo lo avevano riproiettato in men che non si dica nella stessa frustrazione emotiva che credeva di aver superato anni prima.
    Qualcuno sedette sulla sua brandina, cogliendolo un po' di sorpresa. Quando tolse il braccio dal viso la fioca luce delle candele presenti nella camerata illuminò il consumato viso di Guglielmo.
    «Valente, tutto bene?» Il vecchio cavaliere gli rivolse il solito paterno sorriso, nascosto dietro la barba grigia.
    «Fratello Guglielmo, ti muovi silenzioso come un’ombra, non ti ho avvertito arrivare.» commentò il cavaliere più giovane, tirandosi sui gomiti e accomodandosi seduto.
    «Eri totalmente assorto nei pensieri, figliolo.» rispose l'altro, poggiandogli un braccio sulla spalla.
    «Sì, è vero. Stavo meditando di chiedere il permesso a fratello Ascanio di partecipare alla prima, quest'oggi. Pensi che me lo accorderebbe?»
    Guglielmo ridacchiò mentre si grattava il mento. «Ne dubito, ha faticato tanto per farti mettere a riposo. Inoltre non pensi che dovresti riguardarti il più possibile? Non avevi detto che volevi ripartire per la Terra Santa quanto prima?»
    «La ferita alla gamba ha già smesso di farmi male e la pelle non tira più attorno alle cuciture.» cercò di giustificarsi Valente.
    L'uomo esitò qualche istante, infine sollevò la mano che gli aveva appoggiato alla spalla e gli elargì una piccola carezza sulla guancia. «Datti tregua, Valente. Tuo zio è morto, che Iddio lo abbia nelle sue grazie, non hai più bisogno di essere così implacabile con te stesso.»
    Il giovane abbassò lo sguardo. «Mio zio è morto, ma io non smetto di essere quello che sono, ed è bene che non lo dimentichi mai. A maggior ragione ora che non ho nessuno a ricordarmelo.»
    Il cavaliere barbuto sospirò. «E va bene, chiederò io il permesso ad Ascanio per te.» Fece per alzarsi, ma Valente lo trattenne afferrandogli la mano.
    «Guglielmo, io ti ringrazio ma, ti prego, non essere più così gentile con me. Non lo merito.»
    L'uomo lo fissò in silenzio. Nella stanza qualcuno aveva già ricominciato a russare, tornare a letto era consentito tra il mattutino e la prima, se tutti avevano svolto le loro mansioni.
    «Riposa, figliolo, almeno fino a quando non suoneranno le prossime campane.»
    Valente tornò in posizione distesa, osservando il vecchio cavaliere allontanarsi claudicando verso la porta. Una parte di sé si sentiva in colpa per il tentativo di allontanare l'unica persona che lo trattava con affetto, l'altra parte lo rimproverava per l'ennesima dimostrazione di debolezza che dava di se stesso.
    Portò di nuovo il braccio sopra gli occhi e cercò di riaddormentarsi.

    La gamba andava meglio, l'avergli dato tregua per due giorni aveva effettivamente giovato. Valente raggiunse la cappella camminando piano ma senza la necessità di zoppicare. Se fosse stato accorto ancora qualche giorno forse sarebbe stato in grado di viaggiare col semplice ausilio di una fascia attorno alla coscia.
    Alla fine Ascanio Morello non aveva acconsentito a farlo partecipare alle funzioni della mattina, tuttavia aveva ceduto per la nona, con l'unico comando di raggiungerlo in seguito nel suo ufficio dato che aveva necessità di consultarsi con lui.
    Le campane di richiamo avevano smesso di rintoccare già da qualche minuto, i cavalieri dovevano essere pressoché tutti a raccolta all'interno della chiesa del convento.
    Quando varcò il portone di ingresso l'oscurità e la frescura delle mura da cui non filtrava il sole lo avvolsero. Il profumo dell'incenso solleticò le sue narici e gli trasmise quel senso di sacro di cui aveva fortemente sentito la mancanza nei giorni passati in forzoso ritiro dalle attività conventuali. In un luogo di preghiera e raccoglimento il suo animo riusciva in qualche modo a placarsi, ad estraniarsi dalle sue pene mondane e a raggiungere una temporanea pace.
    Almeno così credeva. Poco prima che si rendesse conto che all'interno del santuario non si trovavano soltanto i suoi confratelli perugini, ma anche dei cavalieri delle altre magioni. Forse fra le delegazioni giunte i giorni precedenti alcuni avevano preferito rimanere all'Abbazia per ripartire insieme a coloro che da Perugia intendevano muoversi alla volta del primo porto per Outremer.
    Con un senso di allarme crescente Valente prese posto in fondo alla sala, combattendo l'istinto di cercare tra le chiome sconosciute un riverbero dorato.
    Ascoltò e non ascoltò la messa, il sermone e le preghiere mormorate all'unisono da decine di bocche. Per un istante si permise di chiedere al Signore per quale motivo lo stesse mettendo tanto alla prova, pentendosi subito dopo e chinando il capo sconfitto.
    Fu il primo ad uscire al termine della funzione e si affrettò a raggiungere gli uffici del precettore come gli era stato richiesto. Il gruppo dei fiorentini doveva già essere ripartito poco dopo il mattutino del giorno prima, di quello ne era sicuro o almeno così gli avevano raccontato i fratelli che gli avevano portato i pasti mentre era allettato. Sperava che Ascanio glielo confermasse così da non dover ricominciare a nutrire assurde e inopportune aspettative.
    Al suo ingresso fu però immediatamente chiaro quanto la sua speranza fosse vana. Nell'ufficio oltre allo stesso Ascanio e a fratello Rainero Baffardi, uno dei sergenti della magione, si trovavano fratello Roberto de’ Pazzi, responsabile del gruppo fiorentino e fratello Alberico Mantuano del gruppo di Ancona.
    Ascanio si alzò in piedi andandogli incontro. «Fratello Valente, siedi per favore.» lo scortò fino all'unica sedia rimasta vuota.
    Il giovane sedette, sentendosi spiacevolmente sotto l'attenzione di tutti, inasprendo la propria espressione rivolse ai presenti un brusco cenno del capo. «Mi avevano detto che le delegazioni delle magioni oltre Umbria erano ripartite.»
    «Solo una parte di noi. Sono rimasti coloro che intendono salpare per Outremer rispondendo all'ordine del Gran Maestro.» rispose Alberico, un bell'uomo dal viso spigoloso e dalla chioma fluente forse oltre il concesso.
    Roberto de’ Pazzi si passò pensieroso una mano sulla barba scura che gli ornava il viso. «Come dicevamo a fratello Ascanio contiamo di radunare almeno una trentina di cavalieri, noi di Firenze, più una decina di sergenti e qualche fratello di Mestiere utile alle esigenze del contingente in formazione. Fratello Alberico mi diceva che dalle Marche potrebbero giungere altrettanti uomini. Si pensa di marciare verso la precettoria di Roma per ottenere ulteriori rinforzi e poi partire in direzione di Brindisi, per l'imbarco. Volevamo chiedere proprio a te quale porto suggerisci per l'approdo.» L'uomo gli rivolse una lunga occhiata, come se volesse valutarlo attraverso il suo aspetto fisico, considerandone le attuali condizioni. «Inoltre gradiremmo che sia tu a capitanare la spedizione. Del resto sei il diretto inviato del Gran Maestro.» Notando lo sguardo sgomento che Valente rivolse al proprio precettore l'uomo continuò, prevenendo ogni obiezione. «Anche fratello Ascanio è d'accordo.»
    «Io... sono lusingato, fratelli.» Valente non sapeva quanto fosse realmente grato per quell'incarico che lo avrebbe messo in vista rispetto a tutti, ma dovette fare buon viso a cattivo gioco. Se il Tempio riteneva che quello dovesse essere il suo compito avrebbe comunque fatto del suo meglio per portarlo a termine. «Farò quanto mi è possibile per essere degno di tale onore.»
    «Ne siamo assolutamente certi.» continuò il fiorentino. «Per questo motivo, anche se sappiamo che sei ancora in bisogno di riposo, in vista della vicina partenza, dobbiamo chiederti lo sforzo di restare qui con noi a pianificare il viaggio. Nel mentre che organizziamo le truppe, dato che ci vorranno probabilmente delle settimane tra approvvigionamenti e spostamenti, manderemo dei dispacci alle magioni meridionali per farci preparare le adeguate imbarcazioni, a tal proposito metterò a disposizione il nostro magister per compilare tutti i carteggi necessari e sbrigare le pratiche. È un giovane di spiccato talento, velocizzerà i tempi.»
    Valente chiuse gli occhi per qualche istante. Essere chiamato ad affrontare una responsabilità così grande poteva comunque avere un grosso vantaggio, ossia quello di distoglierlo da tutti i cupi pensieri che lo avevano infastidito in quei giorni. In fondo sapeva già come dovevano muoversi, aveva pensato e ripensato fin dalla sua partenza dalla Terra Santa a quello che i Templari avrebbero dovuto fare per correre in soccorso della Cristianità, una possibile cartina degli spostamenti da fare si stava già visualizzando nella sua mente.
    «Data la situazione che vi ho già illustrato e in base alla lettera redatta dal Gran Maestro in persona ritengo che il porto migliore per raggiungere Gerusalemme sia certamente San Giovanni d'Acri.» Iniziò, con timbro di voce sicuro. «Concordo che Brindisi sia il luogo più agevole per l'imbarco. Occorrerà contattare in anticipo i fratelli della magione brindisina e dar loro il tempo di disporre quanto ci necessita.»
    «L'appuntamento con i contingenti delle varie magioni rimane la precettoria di Roma. Il richiamo è stato fatto tramite il codice di massima priorità.» s'intromise Alberico Mantuano. «Questo significa che entro una decina di giorni dovremmo essere in grado di dirigerci alla locazione da te approvata, fratello Valente.»
    «Dieci giorni?» rifletté il giovane. «Anche prima se fosse possibile. Suggerisco di partire da qui dopodomani, all'alba. Di buon passo potremmo raggiungere Roma in meno di due giorni e preparare ogni cosa in modo da avviarci appena gli altri contingenti si uniranno a noi, senza ulteriori attese.»
    I cavalieri presenti nella sala si alzarono in piedi all'unisono.
    «Comunicherò gli ordini ai miei uomini appena fuori di qui.» disse fratello Roberto.
    Alberico annuì di rimando. «Ed io lo stesso.»
    «Farò mettere agli atti le decisioni prese.» concluse Ascanio, poi rivolse un cenno a Rainero «Avverti i fratelli dell'imminente partenza, che comincino a prepararsi. Occupati anche dei cavalli.» Si volse poi verso il fiorentino. «Potreste chiedere al vostro magister di raggiungere fratello Valente per compilare le missive in questione?»
    «Certamente, non l'ho fatto ripartire per Firenze appositamente.»
    «Posso andare io allo Scriptorium.» iniziò Valente.
    «No, tu tornerai al dormitorio e ti distenderai.» esclamò perentorio il precettore perugino.
    «Ma io...»
    «È un ordine! La partenza è vicina e saranno giorni molto faticosi, non possiamo permettere che la nostra guida si senta male durante il viaggio.» Il tono di Ascanio divenne duro e inappellabile. «Ovviamente sei dispensato dalle prossime funzioni. Accertati che il tuo scudiero ti prepari l'occorrente per la spedizione.»
    «Sissignore.» Valente compresse le labbra nascondendo la smorfia di disappunto e con un breve inchino rivolto ai presenti si allontanò per tornare di nuovo ai dormitori.

    Roberto Guischi, proveniente da una famiglia plebea dell'entroterra perugino, si fece vivo nelle camerate mentre Valente si stava sfilando le calze brache.
    «Mio signore? Fratello Ascanio mi ha mandato da voi a prendere ordini.» disse, avvicinandosi con movimenti assai circospetti.
    Valente sedette sul giaciglio, strofinandosi con i polpastrelli la cicatrice all'occhio sinistro. Roberto gli era stato assegnato come scudiero al suo rientro alla magione di Perugia i primi del mese di giugno. Non aveva ancora raggiunto i diciotto anni, era un ragazzo dai cortissimi capelli biondo grigio e dagli occhi piccoli e scuri, spesso guizzanti. In sua presenza sembrava sempre piuttosto nervoso, e come dargli torto? Valente era brusco nei comandi, esigente e non gli risparmiava duri rimproveri se il ragazzo non svolgeva le mansioni in modo perfetto.
    «Dopodomani è prevista la mia partenza insieme ad altri fratelli. Ai cavalli penserà fratello Rainero, quindi dovrai occuparti solo di preparare il mio vestiario e i ricambi puliti. Ho bisogno inoltre che controlli accuratamente l'armatura, l'ultima volta l'espalier sinistro si bloccava quando alzavo il braccio. Procurami anche una mazza, la mia è andata perduta a Cresson.» Sospirò, osservando il ragazzo che lo fissava con occhi sgranati e bocca aperta. «Ricordati anche di aggiungere alle borse da viaggio il necessario per gli accampamenti esterni, ma evita le coperte, in questo periodo dubito che mi serviranno, il mantello sarà più che sufficiente!»
    Lo scudiero rimase perfettamente immobile.
    «Insomma, sei sordo? Fammi almeno capire che hai inteso quanto ti ho chiesto!» esplose Valente, facendo sobbalzare il poveretto.
    «Sì mio signore, ho inteso!»
    «Allora va'! Credi di avere abbastanza tempo per fare tutto senza errori?» domandò il cavaliere ironicamente, certo che prima della partenza avrebbe dovuto ricontrollare di persona, per evitare di ritrovarsi in viaggio manchevole di qualche cosa di essenziale. «Usa la massima attenzione per l'armatura, Roberto, altrimenti potresti avermi sulla coscienza!»
    E mentre il giovane letteralmente si defilava dai dormitori un'ulteriore figura si profilò alla porta, facendo largo allo scudiero fuggitivo che gli rivolse frettolose scuse prima di svanire oltre il battente.
    Il fiorentino Learco de’ Guineldi avanzò lungo il corridoio centrale fino al letto di Valente. Tra le braccia recava un piccolo scrittoio di legno scuro e alcune pergamene ripiegate. «Scappava da te, quel ragazzo?» domandò vagamente divertito, guardandosi intorno e infine trascinando un banchetto vicino al letto del templare.
    Valente scivolò sotto le lenzuola, se non altro per evitare che il magister dovesse di nuovo assistere alle sue nudità. «Temo di sì.» rispose seccamente. «Mi spiace di doverti accogliere in modo così poco decoroso, Learco de’ Guineldi, ma ho ricevuto ordini precisi in merito.»
    «Nessun problema, rimani pure comodo.» L'uomo sedette con il piccolo scrittoio in grembo e distese una delle pergamene, il cui bel color crema ne testimoniava la qualità. Preparò con calma il calamaio contenente il prezioso inchiostro e scrutò da vicino l'affilatura della penna. «Sono stato mandato da Roberto de’ Pazzi il quale si augura che io possa essere di vantaggio per la causa.» spiccava dalla sua voce un tono leggermente distorto, forse irritato, che il fiorentino dissimulava con un morbido sorriso sulle labbra.
    «Ne ero al corrente, fratello Roberto dice che sei abile e veloce nelle trascrizioni.»
    «Oh, questo dice di me fratello Roberto?» Il sorriso divenne mordace e Valente considerò, con un segreto brivido, che quell'espressione gli donava un qualcosa di diabolicamente attraente.
    «Bene, visto che comunque sembra non esserci una scappatoia, mettiamoci al lavoro. Con il tuo permesso, ho già in mente l'adeguato incipit e la premessa, ma ho bisogno che sia tu a dettarmi le tempistiche e i numeri presunti dei partecipanti, nonché i termini tecnici che suppongo tu conosca per la richiesta delle navi e le loro caratteristiche.» Learco gli scoccò una lunga occhiata, in attesa di conferma.
    Valente fissò per un attimo il soffitto di legno della camerata e iniziò a riflettere sul da farsi. Fu lieto di distrarsi da quelli che cominciavano ad essere pensieri poco consoni alla situazione. Era piuttosto evidente che prima avesse ripreso ad agire, a concentrarsi sulla missione del Tempio, a calarsi nel suo ruolo di Cavaliere di Cristo e prima si sarebbe allontanato dalle mollezze del suo fragile spirito umano. «Anche nella migliore delle ipotesi non dovremmo raggiungere le centocinquanta unità, una singola Galea sottile andrà più che bene. Ma dovrà essere attrezzata anche con balestre e catapulte.»
    Compilarono la lettera in modo piuttosto rapido, nonostante Learco lamentasse l’eccessiva oscurità del luogo. Del resto le finestre del dormitorio erano piccole e ricoperte di cerate. Quando ebbero terminato il templare diede uno sguardo allo scritto, scoprendo una grafia fluida ed elegante e la totale assenza di correzioni.
    «Fratello Roberto aveva ragione, sei veloce e preciso.» commentò, lasciando trasparire una certa ammirazione.
    «È il mio lavoro e lo faccio meglio che posso.» replicò l’altro, raccogliendo gli attrezzi del mestiere. «Porterò gli scritti a fratello Ascanio Morello in modo che provveda velocemente alla spedizione.» Prima di andarsene però poggiò lo scrittoio e i plichi su uno dei giacigli vicini e si voltò a scrutarlo. Nella penombra gli occhi neri sembravano svanire in piccole pozze d’oscurità, rendendo la sua espressione indecifrabile e al tempo stesso inquietante.
    Stava succedendo di nuovo, Valente sentì quasi fisicamente lo sguardo dell’altro affondare in lui, percorrerlo internamente come se potesse sondarlo persino nei segreti più intimi.
    «Ho saputo che sarai a capo della missione.» esordì improvvisamente, con tono più basso e voce stranamente modulata.
    «La condurrò soltanto in veste di guida, non ho alcun titolo, sono solo un umile frate.» chiarì il templare. Gli era quasi sembrato di cogliere una nota di accusa nella voce dell’altro.
    «Un umile frate? Troppo umile a parer mio. Ho sentito molte voci decantare le tue virtù.»
    «Forse è solo eccessiva generosità da parte dei miei confratelli.»
    «Forse.» concesse l’altro. Poi si chinò su di lui, poggiando una mano sopra le lenzuola. «Posso vedere la tua ferita?» Senza attendere risposta scostò i lembi di lino, scoprendo le coscia destra nuda, dove spiccava il lungo e profondo taglio che era stato liberato dalle vecchie fasciature affinché prendesse respiro.
    Learco ne sfiorò il profilo che si delineava con un contorno ancora piuttosto rosato, anche se il gonfiore intorno alle cuciture era sparito. Valente, mentre tratteneva il fiato, non poté fare a meno di notare quanto belle e lisce fossero le dita del fiorentino e con quale grazia scorrevano sulla sua pelle.
    «Sembra davvero sulla via della guarigione.» constatò Learco e con il dorso della mano, inavvertitamente, toccò i genitali del cavaliere, protetti solo da un leggero velo di tessuto.
    La reazione fu praticamente immediata. Valente sentì il proprio membro gonfiarsi con una rapidità tale da costringerlo a scacciare in malo modo la mano che stava ispezionando il taglio che si era procurato a Cresson. «Sarò perfettamente in grado di viaggiare e intraprendere il ritorno in Terra Santa!» esclamò sdegnato, confidando nella scarsa luminosità dei dormitori per celare il rossore che lo aveva certamente avviluppato al viso e il turgore che invece era vergognosamente cresciuto fra le sue gambe.
    Learco riprese tra le braccia gli strumenti che aveva condotto con sé. «Ne sono più che lieto.» commentò placido. «Ah, giusto, anche fratello Bertrand parteciperà alla spedizione.» lasciò cadere quella frase nel silenzio sgomento che avvolgeva Valente e si allontanò verso la porta, subito prima di uscire però si arrestò, inclinando leggermente il capo indietro, nella direzione del cavaliere. «Chissà, magari anche io potrei offrirmi volontario per supportare la causa del Tempio. Credi che uno come me possa essere utile, fratello Valente?»
    Il templare si umettò le labbra, divenute improvvisamente aride. «Conosci la lingua d'oil, il latino e almeno uno dei principali idiomi italici. Sai scrivere e far di conto. Sì, direi che saresti utile.»
    Dal fondo del corridoio Learco sorrise. «Bene, vorrà dire che ci penserò.»
     
    .
  2.     +1   -1
     
    .
    Avatar

    catsoup

    Group
    Wahlker
    Posts
    1,444
    Reputation
    +4

    Status
    Offline
    Sembra molto interessante. ..... adoro i libri delle Peru
     
    .
  3.     +1   -1
     
    .
    Avatar

    Advanced Member

    Group
    Manga Slave
    Posts
    5,966
    Reputation
    +16

    Status
    Offline
    è la prima volta che leggo qualcosa delle Peruggine (perchè cappero ho aspettato tanto >.<)
    li ho completamente divorati questi 6 capitoli *__________* mi ha intrigato dalla prima all'ultima pagina..... Sarà mio!!! *sguardo infuocato* :hero:
     
    .
  4.     +1   -1
     
    .
    Avatar

    » der ♥ Himmel «

    Group
    Chosen
    Posts
    10,977
    Reputation
    +6
    Location
    always behind your shoulders

    Status
    Anonymous
    CITAZIONE (Magnolianera @ 23/1/2014, 12:59) 
    è la prima volta che leggo qualcosa delle Peruggine (perchè cappero ho aspettato tanto >.<)
    li ho completamente divorati questi 6 capitoli *__________* mi ha intrigato dalla prima all'ultima pagina..... Sarà mio!!! *sguardo infuocato* :hero:

    se sei interessata ai loro libri, qui trovi i primi capitoli dello scorso libro che han pubblicato *click* e sul loro vecchio sito puoi trovare le prime storie che non sono state pubblicate ^^
     
    .
  5.     +1   -1
     
    .
    Avatar

    Entra pure dunque, varca la porta del mio animo, tu che non temi le mie tenebre più oscure

    Group
    Wahlker
    Posts
    12,484
    Reputation
    +2
    Location
    Dalla camera da letto di Xewon *ççç*

    Status
    Offline
    e come al solito arrivo sempre dopo ad accorgiermi delle cose >.< ho scoperto solo l'altro giorno dell'esistenza di questo nuovo libro u.u'''
    inutile dire che già mi attira e che assolutamente devo prenderlo, come gli altri che ho letto anche questo si prospetta mooooolto interessante :mmh:
     
    .
4 replies since 21/1/2014, 22:41   476 views
  Share  
.